di Bruno Ciccaglione

Dopo oltre 50 anni dalla sua uscita, superato in popolarità dalla serie televisiva che ispirò e che durò per ben 11 stagioni, M.A.S.H. di Robert Altman pone le basi formali di un modo diverso di fare cinema, nel suo essere radicalmente irriverente verso il potere, scorretto politicamente, non convenzionale e apparentemente caotico. D’altra parte, rivisto oggi lascia un po’ l’amaro in bocca per il suo umorismo a volte “da caserma”, che travolge le figure femminili in un modo che solo in parte risponde alle esigenze narrative e di contesto. Il grandissimo successo commerciale che il film ebbe e l’accoglienza lusinghiera della critica (Oscar alla miglior sceneggiatura e Palma d’oro a Cannes), d’altra parte, ci rivelano come semplicemente alcuni tratti misogini della cultura dell’epoca fossero evidentemente non percepiti come tali dalla gran parte del mondo culturale dell’epoca.
Il film racconta in modo farsesco e cinicamente comico le incredibili vicende di un ospedale da campo statunitense dietro le linee in Corea, tra corpi di soldati martoriati, continui atteggiamenti ribelli verso la disciplina militare e le gerarchie, ma anche scherzi crudeli e momenti di vero e proprio bullismo/nonnismo. I protagonisti sono due chirurghi molto affermati, richiamati sotto le armi, che spadroneggiano nel campo tra partite a golf e rapporti amorosi con le proprie infermiere, guidando una truppa disperatamente aggrappata alla vita.

Altman era ancora un giovane regista non ancora affermato e con poca forza contrattuale. Da alcuni anni cercava di realizzare un film di guerra corale su un gruppo di piloti durante la prima guerra mondiale e quando il produttore Ingo Preminger (fratello del regista Otto) gli propose il copione di Ring Lardner Jr, tratto dal romanzo di Richard Hooker, decise di tentare di realizzare la sua idea di un film “polifonico” adattando il soggetto che gli veniva proposto. Fu questa la prima ragione di conflitto con lo sceneggiatore Lardner (che invece aveva centrato sui 3 protagonisti la storia e riservava davvero poco spazio agli altri). Man mano Altman, pur restando ampiamente nel budget offerto dalla 20th Century Fox, riuscì ad ampliare il numero dei personaggi e quindi degli attori, così come dello spazio che nel film essi andavano assumendo.

Il modo di lavorare di Altman sul set, d’altra parte, era così dirompente, da creare non poche perplessità. Elliot Gould e Donald Sutherland si rivolsero direttamente alla produzione chiedendone il licenziamento, perché temevano di veder rovinate le proprie carriere. Ogni scena infatti era “sporca”: nessuna battuta, per quanto fulminante e comica, veniva messa retoricamente in evidenza, Altman chiedeva agli attori di improvvisare e spesso le scene presentano dialoghi paralleli o la giustapposizione paradossale di elementi diversi (dagli annunci degli altoparlanti alla radio, dalle battute “significanti” alle banalità di un personaggio comprimario).

Un meraviglioso caos, infatti, è ciò che Altman cercava di ottenere nella costruzione di questa farsa antimilitarista (e che farà dire allo sceneggiatore Lardner che nulla di quel che era sullo schermo era frutto della sua penna! Però poi vinse un Oscar… ). Dopo il grande successo del film fu Elliot Gould a rivelare ad Altman, scusandosene, quanto vicino fosse stato il licenziamento del regista dopo la richiesta sua e di Sutherland. Altman accettò le scuse, tanto poi da richiamare Gould per altri tre dei suoi film. Come invece ricorda il regista, Altman non ha più voluto lavorare con Sutherland, che non aveva avuto la sensibilità di chiedergli scusa.
Anche se la storia è formalmente ambientata durante la guerra di Corea, la realizzazione del film vuole esplicitamente alludere alla guerra in Vietnam in pieno svolgimento, principale causa della ribellione giovanile scoppiata a partire dal 1968 in tutti gli USA e poi dilagata nel mondo. Volutamente in M.A.S.H. non si fa mai riferimento al luogo in cui ci troviamo e l’ambiguità del contesto era così forte che la 20th Century Fox impose ad Altman una scritta iniziale che apre la vicenda con le parole “And then there was… Korea” (E poi ci fu la Corea).

La guerra si svolge, letteralmente, in sala operatoria. La sua vera essenza, sembra dirci Altman, è quella dei corpi maciullati aperti e richiusi, del cinismo che richiede a chi non voglia impazzire, della disperata e irriverente vitalità di chi non si fa alcuna illusione sulla retorica ufficiale (la “cacca militarista” di cui Falco/Sutherland accusa “Bollore”/Kellerman). L’unità di spazio del campo verrà interrotta solo per una trasferta in Giappone dei due chirurghi e non è un caso che Altman detestasse questa parte del film, proprio perché rompeva questa coerenza formale che aveva voluto creare.

Se però la furia politicamente scorretta del film ci risulta in qualche modo accettabile quando si scaglia contro il potere e la “cacca militarista” (rendendoci divertente e “meritato” il trattamento anche crudele riservato agli invasati della propaganda), diverso è il caso della scena in cui la truppa scommette sul colore naturale o meno della bionda “Bollore” esponendone la nudità al pubblico ludibrio. Se Animal House di Landis viene da M.A.S.H., si deve purtroppo dire lo stesso di Porkys.

Nel finale del film il caos degenera nella scena della partita di football americano, che però rivela ancora una volta i veri “valori” della cultura nordamericana (“Le scommesse?” “Ma no, il football!”): ridicolo illudersi che nello sport più emblematicamente americano il “fairplay” possa contare qualcosa, anzi, anche qui è il denaro a farla da padrone e proprio come in guerra conta solo vincere, con ogni mezzo.

Tra i grandi meriti del film c’è infine quello di aver dato ad Altman la libertà di sviluppare poi la sua carriera con maggiore libertà. Il suo cinema diventerà davvero grande e anche le tendenze alla mascolinità tossica presenti in M.A.S.H. spariranno dal suo cinema, anzi in più di una circostanza ancorerà le sue storie a messaggi femministi, si pensi al Philip Marlowe/Elliot Gould de Il lungo addio, che ha principi molto più femministi di tante commedie di oggi con donne come protagoniste.

Per una analisi critica della misoginia che risulta nel film si leggano