di Laura Pozzi

Bosnia, luglio 1995. Nel cuore dell’Europa, a soli 40 minuti di aereo da Vienna e a meno di due ore da Berlino, si consuma sotto gli occhi muti, complici e indifferenti del mondo il massacro/genocidio di Srebrenica dove 8372 civili (in maggioranza uomini e ragazzi) vengono trucidati dall’Esercito della Repubblica Serba comandato dal sanguinario Ratko Mladić. I loro corpi orribilmente sfigurati e gettati nelle fosse comuni, saranno in parte riconosciuti grazie al ritrovamento di effetti personali, mentre altri 1700 risulteranno a tutt’oggi dispersi. Ci voleva il coraggio, la caparbietà, l’indignazione, ma sopratutto la lucida e sferzante consapevolezza di una donna e di una talentuosa regista (già Orso d’oro a Berlino nel 2006 con Il segreto di Esma) per rileggere e far rivivere una raccapricciante pagina di storia contemporanea, di cui a distanza di 26 anni si conosce ancora poco. Jasmila Žbanić nata a Sarajevo nel 1974 di quell’esecuzione feroce e silenziosa compiuta in nome di una raggelante “pulizia etnica”, ricorda tutto, porta nel cuore cicatrici indelebili, così come la dolorosa certezza di essere una sopravvissuta, una “prescelta” scampata a quell’atroce destino perpetrato a due passi da casa.

Una storia che l’ha scossa e ossessionata per anni, fino a quando forte dei quattro lungometraggi girati in precedenza, decide di affrontare di petto l’orrore, ispirandosi alla vicenda realmente accaduta al traduttore Hasan Nuhanovic per filtrarla attraverso lo sguardo di Aida (l’impetuosa e magistrale Jasna Djuricic), un’insegnante di lingua inglese sulla cinquantina, moglie appassionata e madre di due figli, interprete al servizio dell’ONU, catapultata nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Un posto, l’accampamento delle Nazioni Unite sorvegliato dai caschi blu olandesi in teoria inviolabile, ma di fatto una terra di nessuno priva d’ identità. L’assedio delle milizie serbe, tra false promesse, dissennate negoziazioni e ultimatum fantasma si protrae per giorni, e culmina nella disastrosa caduta di Srebrenica, ufficialmente e falsamente considerata fino a quel momento “zona protetta”. Inizia così il lungo calvario dei rifugiati, costretti a lasciare la loro terra, a camminare per giorni, a separarsi dai loro cari per cercare un’illusoria salvezza verso un’istituzione mondiale che si rivelerà sorda e fallace. Nelle intenzioni della regista non vi è solo l’urgenza di raccontare le nefandezze di una strage annunciata, ma c’è la ferma volontà di far emergere una verità scomoda, opportunamente taciuta, che ha contribuito alla macabra realizzazione del più efferato genocidio europeo dal secondo dopoguerra.

Ma attenzione, come lei stessa tiene a precisare non si tratta di un film contro l’ONU o le sue idee, piuttosto un invito velatamente polemico a migliorare e potenziare il ruolo di certe istituzioni. Al pari di Srebrenica, il Palazzo di Vetro di fronte al precipitare degli eventi fu completamente isolato. Il suo potere decisionale fu drasticamente ridotto dalle scelte ponziopilatiste di determinati politici internazionali. Anche se non va certo dimenticata la scarsa empatia, l’atteggiamento sprezzante e colonialista degli olandesi verso i musulmani bosniaci. Il film si apre sullo sguardo fisso e attonito dei protagonisti. Gli occhi felini e imperturbabili di Aida sono lame sottili, inchiodano allo schermo, interrogano, costringono a guardare, ma soprattutto a immaginare perché l’inenarrabile resti volutamente fuori campo lasciando allo spettatore il difficile compito di “concepirlo” e quindi fronteggiarlo. Aida si trova in una posizione ambigua, il suo “legame” con le Nazioni Unite le garantisce un ruolo da privilegiata: grazie al suo lavoro può stabilire un dialogo con chiunque, può ottenere informazioni private, ma cosa più importante (crede lei) può mettere in salvo la sua famiglia. Dovrà presto ricredersi e a nulla serviranno le sue suppliche, il suo orgoglio, la sua tenacia, anche per lei si profila a più riprese la drammatica “scelta di Sophie”.

Per tenere in equilibrio emozione e dramma, Žbanić, sceglie una narrazione sobria, calibrata, imprimendo soprattutto nelle fasi iniziali un taglio documentaristico avulso da qualsiasi spettacolarizzazione. A parlare sono i fatti, le azioni, i taciti assensi e il nervoso e ostinato intercedere di Aida, una donna capace di tradurre non solo a parole il disfacimento di un popolo e di un’intera comunità internazionale. Pur rappresentando l’anima controversa del film, non è affatto un eroina, è una donna sola e disperata il cui unico scopo è di portare in salvo i suoi cari. Non importa come e a scapito di chi: l’importante è andare, anche se come suggerisce il titolo, non si sa bene dove. Nonostante l’apparente distacco dovuto a una sceneggiatura solida e selettiva, a una regia essenziale e rigorosa, il film è permeato da una tensione costante, che porta lo spettatore a empatizzare automaticamente con la protagonista. La scelta sapiente e mirata di non mostrare, ma suggerire immagini cruente e brutali, conduce necessariamente a porsi delle domande e a riflettere sui contorni di una vicenda che nel corso del tempo non smette di riproporsi in tutta la sua disumana attualità. Ed è grazie allo sguardo di Aida, al suo volto fieramente lacerato se per quasi due ore riusciamo a sostenere e ancora una volta a sfiorare la banalità del male, senza però perdere del tutto la speranza che forse si annida negli occhi aperti chiusi di quei bambini, ai quali Aida affida nel finale il suo indimenticabile sguardo. Il film passato in concorso un anno fa alla mostra del cinema di Venezia, ha ottenuto una nomination agli Oscar come miglior film internazionale. Grazie ad Academy Two è possibile vederlo in sala dal 30 settembre.

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