Furore, di John Ford (1940)

di Roberta Lamonica

“Sarò tutto intorno al buio. Sarò ovunque, ovunque tu possa guardare. Ovunque ci sia una rissa, così le persone affamate possono mangiare, io ci sarò. Ovunque ci sia un poliziotto che picchia un ragazzo, io ci sarò. Sarò nel modo in cui i ragazzi urlano quando sono arrabbiati. Sarò nel modo in cui i bambini ridono quando hanno fame e sanno che la cena è pronta. E quando le persone mangeranno le cose che allevano e vivranno nelle case che costruiscono, ci sarò anch’io».

(Tom Joad)

Locandina americana di Furore

Dust Bowls, La Grande Depressione e l’esodo degli Okies

Un paesaggio stranamente piatto, spazzato dal vento, stanco, vuoto. La divisione tra la terra grigia e il cielo grigio è tanto precisa quanto inquietante e indistinta. Un uomo alto e magro entra in quella dura geometria, la osserva con uno sguardo di triste riconoscimento, e poi vi si avvia. E’ Tom Joad che si trascina nella polvere fino alla fattoria abbandonata della sua famiglia e apprende attraverso gli occhi spettrali di Muley il dolore della ‘resa’ della terra e la disperazione di cercare di resistere ai trattori. È l’inizio di Furore, e con questa sfida alla paura di ciò che i ‘tempi moderni’ hanno potuto spazzar via più del vento, Ford innalza il suo inno allo spirito invincibile del popolo del Dust Bowl.

Tratto dall’omonimo romanzo capolavoro di John Steinbeck, pubblcato solo nove mesi prima, Furore racconta una storia così credibile e realistica da esser diventato il racconto ‘storico’ della migrazione degli Okies – i fittavoli delle terre dell’Oklahoma – nella memoria collettiva statunitense. Tempeste di polvere, chiusure di banche e proprietari delle fattorie che sfrattano i contadini dalla terra senza preavviso con trattori venduti come incentivo alla promozione della nuova economia industriale americana, abbattono le loro case e li costringono ad andarsene. Storia di un popolo in fuga, Furore presenta pochissimi interni e quasi solo esterni: tende, baracche, macchine, accampamenti, campi, spazi provvisori e sempre minacciati dalla furia degli elementi. Storia di famiglie sfollate che si accalcano, insieme alle poche masserizie sottratte allo sgombero, su vecchi Model T della Ford diventati i nuovi carriage wagon dei nuovi pionieri in viaggio verso la nuova terra promessa: la California. Un popolo di famiglie in fuga che, come i Joad, perdono pezzi lungo la strada e imparano quanto la giustizia sociale nasca dalla solidarietà umana che non è favorita dalla legge costituita. Famiglie che nella condivisione del bisogno imparano a trasformarsi da “io” a “noi”.

Tutta la vita dei Joad in un furgone

Quando i Joad approdano in California le avversità non si placano, anzi. L’unica parentesi positiva arriva nel campo gestito dal governo federale ma si tratta di un breve interludio tra accampamenti disperati e ripari di fortuna. I Joad, famiglia simbolo di questa umanità sfrattata, partono come un’intera famiglia allargata e subiscono la morte di nonna e nonno prima dell’arrivo in California, pietosa liberazione dalla vergogna di scoprire che la terra promessa è una mera illusione e viatico per il mito degli indefessi lavoratori del Midwest. Ma per qualcuno che entra nel mito fondativo di una nazione, qualcun altro ‘fonda’ un nuovo mito: Tom Joad, l’eroe del popolo, il personaggio che alla fine del film perde corporeità per trasformarsi in simbolo di una nuova coscienza collettiva. Nonostante Jane Darwell e Russell Simpson, nei panni di Ma e Pa Joad, si presentino come il trait d’union tra un passato glorioso e un presente disperato, è proprio a Ma Joad che – in una scena aggiunta da Zanuck per sottolineare la morale e smussare il duro epilogo del romanzo – è affidato il messaggio rivoluzionario e dirompente che chiude il film: “Questo è ciò che ci rende duri. I ragazzi ricchi arrivano e muoiono e i loro figli non vanno bene, e muoiono. Ma continuiamo a venire. Siamo le persone che vivono. Non possono spazzarci via. Non possono leccarci. E andremo avanti per sempre, papà… perché… noi siamo il popolo”.

John Steinbeck

Dal romanzo di John Steinbeck al film di John Ford

Dal momento in cui fu pubblicato nel 1939, The Grapes of Wrath (tradotto in italiano, grazie a un’intuizione di Valentino Bompiani, con il titolo ‘Furore’), il grande romanzo sulla coscienza sociale di John Steinbeck, aveva allo stesso tempo incuriosito e respinto Hollywood. Come bestseller, aveva un grande potenziale al botteghino. Ma la potente analisi (e critica) economica del libro aveva fatto storcere il naso a molti magnati del cinema, in gran parte conservatori.

Darryl F. Zanuck, capo della produzione di Twentieth Century-Fox e quanto di più vicino a un liberale che l’industria cinematografica hollywoodiana potesse offrire nei suoi front office, in Furore vide soprattutto una drammatica storia di coraggio, già carica in sé di episodi espressamente cinematografici. In primo luogo, Zanuck stabilì che sarebbe stato un documento sugli uomini e le donne che Franklin Roosevelt aveva chiamato all’inizio del 1933 “mal alloggiati, mal nutriti e mal vestiti… “. In secondo luogo, sarebbe stato un dramma sull’ottimismo americano e sul trionfo del “piccolo popolo” sulla tirannia dell’economia e del pregiudizio di classe.

John Ford

John Ford, con il suo vivido senso pittorico e la profonda simpatia per uomini e donne comuni, con la sua sensibilità specificamente americana e consapevolezza dei paesaggi americani maturata nel lungo apprendistato nel Western, a Zanuck sembrò la scelta perfetta. Ford conosceva a fondo le straordinarie qualità dell’americano ordinario che aveva saputo rileggere alla luce di un’interpretazione quasi mistica delle fonti spirituali della nazione americana e il suo impiego della macchina da presa era talmente plastico e fluido da rendere perfettamente quel mix il tra un reportage, un racconto corale per immagine, un editoriale e una pièce teatrale che Zanuck aveva in mente. Ford sentiva una particolare affinità con la difficile situazione dei contadini espropriati del Kansas della storia di Steinbeck, che rispecchiava quella dei suoi antenati irlandesi che avevano abbandonato la terra durante la Potato Famine del 19° secolo. In Quattro uomini e una preghiera aveva già creato l’immagine della famiglia non solo come indistruttibile ma come strumento di cambiamento, istituzione che potesse agire per migliorare le condizioni sociali. La dura strada che la famiglia Joad percorre per la sopravvivenza diventa metafora di resistenza per una nazione crudelmente martoriata dalla Depressione e sotto l’ombra lunga della guerra europea, ma che in qualche modo, sarebbe ancora “andata avanti per sempre”. Il risultato fu un capolavoro: John Ford vinse l’Oscar per la miglior regia e Jane Darwell quello per la miglior attrice non protagonista. Ma tutto nel film contribuì alla perfezione dell’opera finita: lo sceneggiatore Nunnally Johnson e il protagonista Henry Fonda/Tom Joad, l’ex detenuto ‘Oakie’ che diventa la personificazione dell’integrità e del valore morale del Midwest, sono alla prova più memorabile della loro lunga carriera. Il gruppo di attori caratteristi che compongono la famiglia Joad, i loro amici e antagonisti, sono pittoreschi ma anche plausibili: i loro volti, una vera e propria galleria delle tante emozioni che il film presenta. C’è John Carradine (Casey), il predicatore radicale, figura cristologica che nel momento del proprio assassinio dice “Non sapete cosa state facendo..”, e John Qualen (Mulee), ridotto a fantasma invisibile che infesta la sua stessa terra.

I Joad all’arrivo in California

Indimenticabile il lavoro del direttore della fotografia Gregg Toland, che porta sullo schermo l’Oklahoma devastato dalla siccità e il pericoloso Eden della California in un modo talmente espressivo da far pensare che nessun colore avrebbe potuto sostituire il suo b/n. La fotografia di Toland fa risaltare i volti tesi e denutriti degli ‘assediati’ Joad e dà al vasto vuoto polveroso della contea di Salisaw, in Oklahoma, un’ampiezza visiva senza precedenti.

Tra i tanti futuri registi che sarebbero stati influenzati dall’eloquente dichiarazione visiva di Furore e dalla profonda simpatia per l’umanità che trasudava dal film di Ford c’era Orson Welles, appena arrivato a Hollywood. Come direttore della fotografia del suo sublime film d’esordio, Quarto Potere, Welles scelse l’uomo che aveva reso Furore così visivamente persuasivo, Gregg Toland. E decenni dopo, quando gli fu chiesto da quali registi americani avesse imparato di più, Welles rispose, con un sorriso: “dai vecchi maestri… Con questo intendo John Ford, John Ford e John Ford”.

Scena iniziale di Furore

I Joads e il valore della memoria

E John Ford calibra in modo inarrivabile ciò che deve dire, ciò che deve suggerire o anche solo mostrare, nel suo film. Poveri e gran chiacchieroni, i Joad si esprimono al meglio quando in silenzio resistono, guardano e ‘rispondono’ alla terra attraverso cui passano. La pulizia della vecchia casa da parte di Ma Joad, l’incarnazione dello spirito vitale di un gruppo sociale, è mostrata in gran parte senza dialoghi e la sua scelta da una scatola di ricordi di quali pezzi di vita portare via con sé e quali bruciare, la scoperta di un paio di orecchini e il suo gesto di metterseli alle orecchie e guardare nel buio a metà – unico momento di vanità femminile – difficilmente potrebbe essere migliorato con le parole. Jane Darwell generosa, matriarcale, molto irlandese ha dato vita a una delle madri più indimenticabili della storia del Cinema.

Ma Joad (Jane Darwell) e i ricordi di una vita

Sebbene Furore sia stato, più di ogni altro film di Ford, un commento sul proprio tempo e una forte dichiarazione del suo impegno per i valori liberali, il film è pervaso da una malinconia sulla perdita di un più semplice passato, una sensazione che avrebbe impreziosito anche i suoi film successivi. Ford sembra voler dire che la società dovrebbe sempre più fare affidamento sui ricordi. E grazie al focus sulla memoria, il film acquisisce una qualità senza tempo e universale, che lo svincola dalle realtà immediate della Grande Depressione o del New Deal e gli dà un respiro epico al pari di Via col vento, la cui premiere aveva avuto luogo solo sei settimane prima di Furore. Se Via col Vento vedeva l’economia agraria dal punto di vista della classe dirigente, Furore si immergeva e condivideva il punto di vista di un sottoproletariato vessato e disorientato.

L’eredità di Tom Joad nella musica di protesta americana

The Dust Bowl ballads

Nel 1940, un musicista dell’Oklahoma, Woody Guthrie registrò le Dust Bowl Ballads, ispirate al romanzo di Steinbeck e all’adattamento cinematografico di John Ford. La musica di Guthrie divenne popolare non solo tra i contadini migranti che cercavano una voce in una California sconosciuta, ma anche tra gli altri che simpatizzavano con la sua ideologia di sinistra e l’uso della musica popolare come grido di battaglia di chi voleva un cambiamento nella società, combinando i valori tradizionali dell’etica, della famiglia e della religione con l’idea di azione collettiva e diritti civili.

Ovunque i bambini hanno fame e piangono

Ovunque le persone non sono libere…

Ecco dove sarò”,

cantava Guthrie nella Ballad of Tom Joad. Solo 50 anni dopo il campione della povera gente, l’eroe degli ultimi sarebbe diventato un fantasma nella canzone di Bruce Springsteen che dà il titolo all’album e che racconta di un uomo seduto accanto a un falò sotto un ponte, non lontano dagli infiniti binari della ferrovia. Sta aspettando il fantasma di Tom Joad. Ma le speranze di salvezza a metà degli anni ’90, quando uscì l’album del Boss, non erano molto più palpabili di fantasmi come Muley nel film di Ford: l’uomo seduto che prega accanto al fuoco aspetterà a lungo prima che arrivi il sollievo ai suoi affanni. Nel loro album del 2000, Renegades, I Rage Against The Machine, hanno reso metal The Ghost of Tom Joad, rilanciando la figura mitica di Tom Joad a un pubblico nuovo, più giovane e forse più politicamente radicalizzato in un inizio del 21° secolo post-Iraq, post-recessione, post-Clinton.

Man sleeps by a campfire under the bridge
The shelter line stretchin’ around the corner
Welcome to the new world order
Families sleepin’ in their cars out in the Southwest
No job, no home, no peace, no rest, no rest!”
.

Nuovi pionieri e nuovi nomadi

Frances McDormand, nuova nomade in Nomadland di Chloé Zhao

Poco più di un anno fa Chloé Zhao fondeva ingredienti di vita reale e immaginari in quello che da qualcuno ha definito il Furore dei nostri tempi, Nomadland. Un’umanità alla deriva, in una migrazione il cui unico scopo è la sopravvivenza, in cui il bene collettivo diventa l’unico mezzo per garantire quello individuale. Sorrisi mesti in campeggi improvvisati lungo gli spazi sterminati di una geografia americana al contempo indifferente e protettiva, disegnano autostrade di sofferenza ma non di disperazione sui volti di questi Joads dei nostri tempi.

La storia di povertà e disperazione raccontata da Furore non è troppo dissimile da quella dei nuovi poveri americani: bianchi e protestanti, gente abituata alla fatica e che, nonostante la fatica, non riesce più a sopravvivere. Nel film della Zhao, come nel romanzo di Steinbeck e nel film di Ford, agli anziani e alle donne è affidato il compito di infondere un senso di comunità e di resistenza alle giovani generazioni. Ma a differenza di quel clan immaginario, tuttavia, i nomadi contemporanei non hanno una terra promessa per la loro destinazione, il lavoro perde il legame con una terra e un luogo fisico, diventando occasione aleatoria di occupazione temporanea e a basso salario per assicurarsi un pasto caldo. Eppure, “ci si vede lungo la strada“, perché l’unica speranza nella terra desolata di questa società invisibile è nel mutuo soccorso e nell’incontro.

Collettivismo e riconciliazione in Furore

Saluto tra Ma’ Joad e Tom

Furore è percorso da un appello a un’azione unitaria, collettiva che però non va confusa con una vera e propria ideologia comunista. C’è una tensione tra l’individuo e il gruppo nel film, esemplificata nel famoso discorso di Tom Joad mentre saluta la madre verso la fine del film: “Uno non ha un’anima per sé solo, ma un pezzetto d’una grande anima, che è la grande anima di tutta l’umanità. (…) Quindi non importa, perché io non potrò morire. Io sarò dovunque, dovunque ci sia un uomo”; ma la riconciliazione, nel film di Ford, può essere piuttosto inserita nella tradizionale nozione del mondo occidentale dell’unità dell’umanità, come nel famoso passaggio di John Donne, “Nessun uomo è un’isola completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa”. Quindi Tom, divenuto la coscienza fluttuante delle minacce e delle promesse della classe operaia americana bacia sua madre, manifestazione esteriore di affetto del film – e si allontana su una cresta di collina verso un futuro incerto.

Ford avrebbe voluto concludere il film “con una nota negativa”. Zanuck decise di affidare all’eroina del film, quella madre mai stanca e mai distante dalla sua famiglia un discorso che dimostrasse che per i Joad sopravvivere significava trionfare. Tom è andato via, discepolo di Casey, risucchiato dal mito, per restare in eterno l’eroe del popolo. A Ma’ Joad, a Rosa Tea e alla piccola Ruthie, il compito di resistere e continuare perché “una donna può cambiare meglio di un uomo. Un uomo vive, in qualche modo, beh, a scatti. Nasce un bambino e qualcuno muore… Ottiene una fattoria o la perde… Con una donna, è tutto in un flusso come un ruscello. Piccoli vortici e cascate, ma il fiume va dritto. Una donna la vede così”. Alle donne scrivere il futuro. A Tom Joad e a tutte le sue anime sparse nel mondo, lottare per la giustizia.

Ma Joad e Tom Joad

6 risposte a "Furore, di John Ford (1940)"

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  1. Ancora una volta Roberta Lamonica imprime alle sue recensioni una nota di profonda umanità e di profonda conoscenza dei protagonisti del mondo cinematografico, accompagnandoci alla scoperta non tanto del film ma della realtà che dà carne e sangue al film. Illustrandoci le personalità e gli orientamenti umani dei protagonisti, non attori, ma artefici di una visione corale, senza sottovalutare il ruolo delle singole personalità. E lo fa proiettando questa visione sin dentro la realtà odierna.
    So che le mie parole sono scarne e riduttive rispetto ai numerosi argomenti che arricchiscono questa recensione e me ne scuso con Lamonica, ma sentivo la necessità di esprimerle il mio plauso almeno in sintesi.

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