di Roberta Lamonica

Nomadland: come evitare ‘le buche più dure’ e continuare a viaggiare.
Neve. Neve e ghiaccio ovunque. Anche nell’anima. Un lutto e una distesa bianca che congelano in un inverno perenne il passato, i suoi punti di riferimento, le voci, i suoni e i ricordi. Una distesa bianca su cui riscrivere la propria vita e da cui ripartire e rimettersi in viaggio. Perché, in fondo, questo è la vita: un viaggio in cui spesso è impossibile evitare ‘le buche più dure’ ma che si compie con la speranza di trovare lungo la strada qualcosa che ci aiuti a riparare eventuali danni e continuare. E ripartire. ‘Gentilmente’. Tratto dal libro omonimo della giornalista americana Jessica Burden, che segue il girovagare di tre ‘nuovi’ nomadi attraverso Sud e Nord Dakota, Nebraska e Texas, e Leone d’Oro alla 77esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Nomadland di Chloé Zhao è un film pieno di grazia, opera della piena maturità della regista americana che, pur non rinunciando al suo stile distintivo dall’estetica raffinata, riesce a dare una lettura della sofferenza profondamente originale e personale. La realtà da cui prende spunto il racconto entra nel film conferendogli tratti documentaristici: momenti di vita reale ‘in presa diretta’ (i veri vandwellers Bob Wells, Linda May e Charlene Swankie, fanno delle apparizioni interpretando se stessi), si alternano a primi piani e campi lunghissimi come le fasi del giorno che dettano il ritmo di questo film che ‘canta’ il valore del viaggio della vita con grazia e poesia. Un viaggio lungo e lento come gli spazi sterminati e i panorami mozzafiato che racconta (impreziositi dalla fotografia affascinante di Joshua James Richards) e che l’occhio fatica ad abbracciare in un sol colpo. È lento come un giorno che tarda a finire, come l’attesa per il sorgere del sole, come il coraggio di aprire il proprio cuore, come la forza di rinunciare a un amore.

Frances Mc Dormand, che è anche produttrice del film, dona volto, espressioni e goffo incedere a questa storia di libertà, di scelte e rinunce; a quest’ America dell’esodo, di anime quasi corporee e di corpi immateriali, privati della carica vitale dell’erotismo o della forza sovversiva della ribellione. Non c’è mai rabbia, non c’è reazione allo sfruttamento, ma resistenza e quasi indifferenza in questo universo dove anche quel mostro alienante del post capitalismo rappresentato da Amazon è svuotato di ogni peso simbolico e ideologico. Non c’è il racconto rabbioso e indomito di Sorry we missed you, di Ken Loach, qui. Nessuno nel film si lamenta della politica, della recessione o di un sistema che in un attimo cancella dalla faccia della Terra interi paesi e la vita di tutti quelli che vi hanno vissuto. Non c’è cieca fiducia o vana speranza in un cambiamento. Nomadland è ciò che viene dopo. È la sublimazione in chiave poetica del senso stesso della vita. È un tentativo di recupero di quell’essenza più pura dell’essere umani che resta quando tutto il resto è ‘andato’.

E infatti Nomadland è un film che in realtà parla di persone e non di società. Alla struttura organizzativa verticale della società occidentale si oppone una nuova modalità aggregativa orizzontale, basata sulla condivisa necessità di sopravvivere dopo che la tempesta è passata e che porta queste persone a trovarsi e ritrovarsi richiamate dalla disponibilità di lavoro, in ogni sua forma. Per sopravvivere, appunto. Non importano le competenze, i titoli professionali e il social background. Si lavora per continuare a viaggiare e viaggiare. E nel deserto polveroso dove questa umanità in transito si incontra, ci si scambiano racconti, consigli, tenerezza e vecchi oggetti appartenuti a singole vite che nell’esperienza comune e rarefatta del deserto diventano collettive, così come i ricordi e le lacrime sulle note di Oltremare di Ludovico Einaudi che non fungono solo da accompagnamento sonoro alle immagini ma le contrappuntano, invadendo la scena e diventando parte integrante della narrazione.
Frances Mc Dormand in Nomadland: un ruolo indimenticabile

La McDormand dona ogni sua ruga, ogni espressione dolorosa, ogni sguardo perso nell’Oltre allo scrutinio dello spettatore e Chloé Zhao indugia con la sua macchina da presa sulle spalle curve e le cosce forti, sui capelli radi, sugli indumenti che coprono ma non adornano, sulla verità di Fern, questa sopravvissuta all’apocalisse della propria vita che, ormai privata di tutto, può finalmente scegliere.
“Mia madre dice che Lei è una senzatetto. È vero?” “No. Non sono una senzatetto. Sono senza una casa”.
(Fern in una scena del film)
E non è la stessa cosa, effettivamente. Fern non ha più una casa, luogo fisico, scrigno di ricordi e memoria, ma ha il suo van che vale molto di più dei cinquemila dollari che le vengono offerti per disfarsene. Di questo mezzo di trasporto vecchio e arrigginito, proprio come lei, Fern fa la sua casa, il luogo delle cose essenziali e irrinunciabili, delle foto sbiadite, conchiglia di chiocciola, grembo materno, riparo dalla tempesta. Perché solo lì i nomadi sentono di avere finalmente pace, nel van che li vede ‘zingari e felici’. “Ci troviamo lungo la strada”, una specie di commiato che non è mai un addio; è la promessa di un incontro davanti a un fuoco nella notte del deserto dove bruciare i cadaveri del proprio passato a condividere dolori e solitudini; dove parlare, anzi sussurrare al cuore delle persone. Dove la condivisione e l’affetto nascono spontaneamente dall’accettazione delle diversità, anch’esse irrilevanti rispetto alla comune appartenenza alla miseria umana. Delicato come un fiore di ciliegio il tratteggio della relazione tra Fern e Dave (David Strathairn in uno splendido lavoro in sottrazione) che, seppur solo per un breve tratto di strada, ha la tenerezza e la malinconia che solo certi amori non vissuti hanno.

La solitudine che aveva caratterizzato molto cinema della New Hollywood, quel vuoto esistenziale e quell’angoscia identitaria che erano la cifra di film come Scarecrow di Jerry Schatzberg, per esempio, in cui i protagonisti cercavano di ritrovare un senso alla loro vita e conservavano dei piccoli sogni, dovendo però fare i conti con percorsi esistenziali irrisolti e continui deragliamenti, diviene qui espressione del grado più alto di libertà e indipendenza, l’accettazione della perdita e il ritorno alla natura come casa di un’umanità che cambia prospettive e priorità; un viaggio incerto nei mari della propria vita e una nuova formazione per affrontare quel giardino sul retro che si apre su distese di nulla che si allungano fino alle montagne. È da lì che si è ripartiti ed è lì che si deve tornare. Per poi partire ancora. Forse la fine del viaggio, o forse la ultima meta. Tanto… “Ci si vede lungo la strada”.
