di Roberta Lamonica
“ L’uomo ha il diritto di chiedere, la donna ha il dovere di rifiutare!”
(Il padre di Peppino Califano)

Pietro Germi e la Sicilia
Recalcitrante contro qualunque etichetta o classificazione, uomo colto e geniale, schivo e all’apparenza spigoloso, Pietro Germi consolidò il suo successo essenzialmente verso la fine del Neorealismo e pur distaccandosi dallo stile e dalle atmosfere del genere, fu comunque sempre portavoce sensibile e affettuoso di un mondo che sembrava non aver voce. Germi trovò nella Sicilia un set perfetto per portare avanti un certo tipo di analisi sociale. Terra che offriva grandi paesaggi in cui i personaggi dei suoi film diventavano oggetto di indagine e scavo psicologico, la Sicilia si prestava alla rappresentazione del tragico e del comico al contempo in quanto luogo in cui lo specifico italiano trovava pieno compimento. Piuttosto spinto da uno spirito satirico e da una forza morale che dalla vena leggera e umoristica che ispirò tanta Commedia all’italiana, dopo In nome della Legge e Divorzio all’italiana, nel 1964 Germi diresse Sedotta e abbandonata con Stefania Sandrelli, Saro Urzì, Lando Buzzanca, Leopoldo Trieste, Aldo Puglisi e Paola Biggio, tra gli altri.

Una ‘piccola cassata siciliana, fatta di tanti ingredienti’
Film che suscita reazioni contrastanti che variano dal divertimento allo smarrimento fino alla ripugnanza, Sedotta e abbandonata è una commedia tragica, in cui il riso si trasforma in un ghigno grottesco e spaventoso di fronte a situazioni che per quanto equivocate e presentate con tocco leggero, colpiscono profondamente e inevitabilmente. E ai corpi, ai contrasti di luce, alla violenza e prepotenza della loro messa in scena, Germi affida la sua critica e il suo sdegno ma anche un certo disagio personale verso il rischio di cedere alle passioni, alla loro prepotenza, alla loro difficile gestione. Un film che sfugge alle classificazioni e come lo stesso Germi dichiarò “una piccola ‘cassata siciliana’ fatta di tanti ingredienti diversi e di diverse consistenze, buona ma anche indigesta, per chi non avesse avuto uno stomaco forte”. La costruzione narrativa di Sedotta e abbandonata è magnifica, cristallina e dal ritmo sempre sostenuto, ben congegnata dai grandi Age&Scarpelli e Luciano Vincenzoni, collaboratore e amico di lungo corso del regista genovese. Allo stesso modo la colonna sonora di Carlo Rustichelli che sottolinea gli stati d’animo dei protagonisti, affresca ambienti e atmosfere, approfondisce i risvolti emotivi della storia senza mai essere invadente.

La Trama
In una Sciacca immersa nella luce abbacinante del sole siciliano, in cui il lutto preventivo delle donne contrasta con il bianco di scale, edifici e strade, la bella Agnese (Stefania Sandrelli) sguardo basso e andatura composta, viene sedotta da Peppino Califano (Aldo Puglisi), – fidanzato della sorella Matilde – che, fra l’altro, le imputa la responsabilità della sua ‘debolezza’. La ragazza, divorata dalla passione e dai sensi di colpa, viene scoperta dai genitori. Il padre Vincenzo Ascalone (uno strepitoso Saro Urzì, premiato a Cannes come miglior attore) fuori di sé per la perdita dell’onore – più suo che della figlia – vuol costringere Peppino a un matrimonio riparatore, ma il giovane seduttore si vuol sottrarre alle nozze e mette in atto una fuga, con l’aiuto della famiglia. Don Vincenzo cerca ogni mezzo per trovare soddisfazione del torto subito con risultati devastanti su Agnese che quasi sull’irlo della follia, alla fine cederà alle convenzioni e alle rigide regole della società patriarcale arretrata in cui vive in cui per una donna l’alternativa alla riparazione del disonore era la morte (sociale o psicologica) o la clausura.

Il mondo assurdo di Sedotta e abbandonata, fatta di polarizzazioni e disparità
Il nitore accecante del cielo di Sciacca porta con sé la conseguenza della perdita di lucidità, e nella passione e nella ragione. Un mondo in cui favoritismi e convenienze dettano le regole di convivenza ‘civile’, in cui la legge viene interpretata secondo il proprio tornaconto, in cui si è disposti a sacrificare la libertà di un figlio per l’onore, non in cui “se si dice no, forse si vuol dire sì” è in cui gli uomini “non parlano… non parlano…”, la morale cattolica permea la vita della comunità e quella familiare ne scandisce i ritmi, con il padre a dettare umori, arbitro assoluto della vita dei suoi figli.

Le scelte di tutti i personaggi sono ipocrite e false e rispondono a una logica in cui sentimenti e etica hanno poco, anzi nessuno spazio, dove parole come rispetto e onore pesano come macigni nella vita delle persone. Gli uomini, in particolare, sono disgustosi e ripugnanti. Sempre in gruppo, sempre predatori, sempre auto assolutori nella loro incapacità di tenere sotto controllo le loro pulsioni sono tutti caricature deformi di tipi umani unti, sudati, volgari nei volti e nello spirito, tutti i protagonisti, ad eccezione dei rappresentanti delle Istituzioni sono destinati a un’esistenza di finzione, in cui pirandellianamente saranno altro da sé. Lo stesso Peppino, pensieri impuri, costituzione segaligna, ‘cocco di mamma’ dagli occhi piccoli e neri come spilli, è vittima del ruolo che la società e la sua famiglia piccolo-borghese gli ha attribuito, dilaniato tra aneliti alla modernità e imprinting patriarcale. E la fine ‘del mondo che fu’ è incarnata nella figura del Barone, un Leopoldo Trieste strepitoso, che nell’antica casa in rovina, nei denti mancanti e nei modi bizzarri rappresenta l’ultima deteriore speranza di un’alleanza tra aristocrazia e piccola borghesia contadina rappresentata dagli Ascalone.

Non differente è la condizione delle donne nel film, rappresentate attraverso lo sguardo maschile, ispezionate nei loro cicli biologici, costrette a vivere in un contesto in cui essere ‘grasse’ come se fossero giovenche serve a garantire una maggiore fertilità, e pratiche oscurantiste rivelano segreti inconfessabili. Forse solo l’urlo di Agnese in pretura, quel sì che vuol dire esattamente il contrario, deflagra con tutta la forza della ribellione e della sofferenza, salvo poi spegnersi nell’accettazione di una vita coniugale che non verrà rappresentata anche perché, nella vita di Agnese dopo il matrimonio, non accadrà nulla degno di esser raccontato.

Franca Viola e il riscatto di Agnese
Ci piace pensare a un riscatto delle tante Agnese la cui vita era simile a quella raccontata nel film, nella vicenda di Franca Viola che, solo un paio di anni dopo l’uscita del film di Germi, sarebbe assurta agli onori della cronaca per aver denunciato e contribuito a far condannare il suo stupratore, Filippo Melodia. La storia di Franca segnò un punto di svolta nel pensiero comune. Lei divenne icona della lotta per l’emancipazione femminile in Italia e nelle sue parole al processo, “Io non sono proprietà di nessuno, l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce”, sembra di scorgere gli occhi fieri e orgogliosi di Agnese, non più abbassati sulle convenzioni e le costrizioni di una società patriarcale e maschilista.
