di Roberta Lamonica

“Io amavo Angela”, una dichiarazione, la motivazione più semplice per una lunga serie di sotterfugi, inganni e un delitto: così finisce il primo ‘movimento’ di Divorzio all’Italiana, capolavoro di Pietro Germi del 1961, tratto da un romanzo di Giovanni Arpino ‘Un delitto di onore’ e vincitore di un premio Oscar per la migliore sceneggiatura a firma dello stesso Germi, De Concini e Giannetti. Il film è parte di una ideale trilogia insieme a Sedotta e Abbandonata (1964) e Signori e Signore (1966) con cui il cineasta ligure mette alla berlina in modo feroce i costumi italici fatti di meschinità, vigliaccherie e raggiri. Carlo Rustichelli apporta un contribuito determinante all’atmosfera del film con una colonna sonora in cui il contrappunto degli archi concede spesso punte di fine umorismo all’elemento, – essenzialmente tragico – di fondo.
Divorzio all’italiana: l’amore secondo Fefè Cefalù
Un indimenticabile Marcello Mastroianni veste i panni del barone Fefè Cefalù di Agromonte: la sua voce narrante accompagna lo spettatore in un lungo flashback nel racconto della sua ‘avventura rocambolesca e delittuosa’ per vivere l’amore proibito con sua cugina Angela.
Angela è giovane, bella, fresca come una rosa: stupenda nell’inquietudine di sonni agitati dietro tende di pizzo bianco mosse dal respiro della terra quando il caldo torrido allenta la sua morsa su di essa; .la sua pelle bianca risalta alla luce della luna nell’agrumeto profumato che inebria e stordisce i sensi. La malizia innocente e una spallina della candida camicia da notte che scende a mostrare i lividi ingiusti dell’ira paterna… E Fefè si abbandona all’estasi amorosa, pronto a tutto pur di vivere e godere di quel fiore davanti a tutti, nell’affollato ‘teatro sociale’ che è Agromonte.

Solo un ostacolo si frappone tra il barone e il suo sogno d’amore: un matrimonio soffocante come la calura estiva siciliana con una donna indigesta come l’aglio nei peperoni, zuccherosa come il caffè che gli porta ogni giorno violando l’intimità del suo studio, ‘closet’ barocco detentore di tutti i segreti e i sospiri dell’aristocratico Fefé. Rosalia (Daniela Rocca) è grottescamente imbruttita e sgraziata, inferiore per estrazione e cultura al suo nobile marito. Recita il suo ruolo Rosalia, come tutti ad Agromonte e nella società italiana in genere, che metonimicamente Germi fa oggetto della sua satira sferzante. E’ moglie devota ma anche padrona di casa inflessibile e crudele (tanto che in uno dei suoi pensieri omicidi Fefè la vedrà come strega davanti a un calderone); è ingombrante, Rosalia, appiccicosa. Ma anche Fefè recita un ruolo, la sua immagine negli specchi a ricordargli che fuori dal teatro sociale, fuori dalla conformità, fuori dalle convenzioni, fuori dalla finzione della realtà, quell’uomo con i baffi, i capelli impomatati e lo sguardo vacuo è solo un riflesso sbiadito di ciò che egli è e vuole realmente.

Divorzio all’italiana: un film di contrasti e contraddizioni
E un film basato su evidenti contrasti, Divorzio all’italiana, contrasti forti in una regione, la Sicilia, che Germi amava moltissimo in quanto “i caratteri degli italiani qui sono più esasperati…perché la Sicilia è l’Italia due volte“.
Nella luce abbacinante che inonda la piazza, i campi arsi dal sole, le pale di fichi d’India e il bianco delle camicie inamidate dei notabili del paese, la vita di Fefè è scandita dal suono delle campane delle 24 chiese di Agromonte, dalle urla incomprensibili dei venditori nelle strade, dagli ardori amorosi di sua sorella e del fidanzato Rosario Mulè (Lando Buzzanca), dalle continue molestie del padre alla servetta Sisina, che ricorda la Maria di Maria Pia Casillo in ‘Umberto D.’ ma anche la Bersagliera di Gina Lollobrigida in ‘Pane, amore e…’ sotto lo sguardo accondiscendente della baronessa, sua moglie.
I privilegi della nascita lo vogliono inoperoso e annoiato e nell’orrore dell’inerzia, nell’auto assoluzione pacificatrice e nello struggimento d’amore di sapore shakespeariano maturano i pensieri omicidi nei confronti della moglie Rosalia. Nel caso in cui lei lo tradisse, infatti, Fefè sarebbe ‘giustificato’ nel commettere un delitto d’onore, quasi ‘tollerato’ dalla Legge ed essenziale per liberarsi dal vincolo coniugale che gli impedisce di amare la bella Angela alla luce del sole. Questi pensieri omicidi in qualche modo lo vivificano, gli occupano le giornate, lo aiutano a costruire un mondo interiore parallelo fatto di cinica verità e totale libertà operativa. Il tic di Fefè, quel suono che accompagna la smorfia all’angolo della bocca è l’epifania di quel mondo interiore fatto di pensieri orribili e un modo per scrollarsi di dosso il peso degli eventi avversi della vita, un modo per alleggerirsi la coscienza, dei vigorosi ‘colpi di spazzola’ alle proprie responsabilità.

Divorzio all’italiana e il ‘teatro sociale’: la vita come finzione
«Agramonte: diciottomila abitanti, quattromila e trecento analfabeti, mille e settecento disoccupati tra fissi e fluttuanti. Ventiquattro chiese, tra le quali si annoverano alcuni notevoli esemplari barocchi del tardo Seicento. Questo è palazzo Cefalù e questo è lo stemma dei miei avi, l’unica cosa o quasi che mio padre non si fosse ancora venduto»:
(Il voiceover di Fefé)
Fin dalle primissime scene allo spettatore vengono date le coordinate spazio-temporali in cui l’azione si svolgerà e cioè il grande teatro della vita sociale dei protagonisti del film. E il teatro sociale prevede di essere in scena sempre. “All the world’s a stage”, il Bardo faceva dire a un suo personaggio in ‘Come ti piace’ e Agromonte è un grande palcoscenico: gli abitanti i suoi attori, costantemente impegnati nella recita della vita. Non si può rischiare di uscire dal ruolo. Mai. Anche quando Fefé e il barone suo padre spiano Angela da dietro le stecche delle serrande scrostate del bagno, lo fanno con un binocolo, come quello che usano a teatro, come se stessero assistendo a una pièce teatrale. Anche il tribunale è un palcoscenico e l’arringa del magniloquente avvocato De Marzi (Pietro Tordi) è una rappresentazione teatrale a tutti gli effetti. Anche quando partecipano al funerale dello zio Calogero, i Cefalù entrano scena e performano il dolore, così come performano la tragedia dell’onore ferito e forse anche il sentimento amoroso.
All’inizio del film Fefé esce da un gabinetto del treno – unico spazio davvero privato e forse unico luogo degno della sua levatura morale. Va in scena l’attore: occhiali da sole, baffi ben rifiniti, bocchino come segno di distinzione, i neri capelli impomatati. E lo spettacolo comincia.

Divorzio all’italiana: sfera pubblica e privata…e un ‘doppio’ cinematografico
E così è chiaro fin da subito che tutta la storia si svolgerà su due piani; uno pubblico, quello che le immagini ci raccontano e uno privato, quello che ci arriva tramite il punto di vista di Fefé. I contrasti e le contraddizioni sottendono tutto il film di Germi: il matrimonio di Fefé è sterile, sterili sono le conversazioni pubbliche e private; il palazzo è buio, la piazza è troppo assolata, Fefé può immaginare e cercare uno spazio di libertà ma quello stesso spazio è però negato alle donne che orbitano nella sua vita. Non ne ha la madre baronessa, sotto il giogo di un marito vizioso e prepotente; non ne ha Sisina, costretta al silenzio e alla sopportazione di attenzioni non richieste nel palazzo baronale; non ne ha Rosalia, chiusa in un matrimonio senza amore e letalmente ingannata nel suo recuperato sogno d’amore :“Eri assetata d’amore, povera Rosalia. Troppo assetata”, dirà laconicamente Fefè sulla sua tomba. Sembra non averne Angela, vessata e allontanata dalla famiglia per scongiurare la perdita dell’onore. Eppure… eppure.
Se il Fefè pubblico e quello privato si affrontano negli specchi, nei bagni e nei luoghi pubblici, c’è una sfida che si svolge idealmente anche tra il personaggio che Mastroianni interpreta in Divorzio all’italiana e il personaggio che lo stesso attore interpreta ne La Dolce Vita, la proiezione del quale è un evento a cui accorrono tutti gli abitanti di Agromonte. Il cinico e sofisticato giornalista romano de La dolce vita insegue (non visto) Anita Ekberg, in un’improvvisa infatuazione. In quello stesso momento, l’aristocratico siciliano Fefè – aspirante cinico e finto-sofisticato – insegue la moglie per le stradine del paese, con l’intento di coglierla in flagrante.
Agromonte: un microcosmo della realtà italiana
Ma laddove nel film di Fellini il glamour della Città Eterna fa da sfondo a una storia di vuoto emotivo ed esistenziale, ad Agromonte, nel piccolo cinema affollato, quei volti segnati e non pienamente in grado di leggere la complessa realtà filmica del maestro riminese, ci consentono un’immersione autentica nella realtà popolare italiana dell’epoca, rendendo la frusta di Germi dolorosamente efficace.

Una realtà come già detto arretrata dal punto di vista politico-legislativo (la mancanza di una legge sul divorzio che arriverà nel 1974 e l’art. 587 del cod. penale che regolava il diritto di onore), sociale e culturale in cui all’ingerenza del Vaticano nella politica italiana: «Vi esorto a dare il vostro suffragio a un partito che sia democratico e cristiano!», fa da contraltare la lingua ideologica e incomprensibile dell’«Agramonte proletario che procedeva gloriosamente sulla via del progresso… Un progresso un po’ lento, forse”.
E Germi, che inserisce pagine di giornale, immagini del Codice Penale in modo quasi documentaristico per ancorare la cronaca alla realtà fittizia del suo film, svuota la parola della sua qualità primaria e cioè di veicolare un messaggio e un significato complessi: la parola in Divorzio all’italiana inganna, complica, è usata per denigrare o per sviare dalla verità nella forma di chiacchiera da bar o di lettera anonima, espressione del giudizio collettivo e del suo peso nel determinare l’evoluzione delle storie individuali. Indimenticabile è a tal proposito la scena nella sezione del PCI locale, dove un giovane dirigente del partito affronta con gli iscritti la scottante storia di corna eccellenti nel paese: “.. È giunto al fine il momento di affrontare il secolare problema dell’ emancipazione della donna così come esso è stato affrontato e risolto, per esempio, dai nostri confratelli cinesi. Pertanto io vi invito ad esprimere il vostro democratico parere sul fatto. Cioè a dire, Quale giudizio sereno e obbiettivo merita la signora Cefalù?”. Parole incomprensibili, perché lontanissimo dal loro mondo è il concetto stesso di emancipazione, figurarsi quella femminile! Per cui alla scottante domanda non possono che rispondere con un laconico “Bottana! Bottaaaana!”.
E per questo non è un caso che di Fefè parli molto la coscienza, seppur nel flusso ordinato che dona allo spettatore, ma molto poco il personaggio ‘reale’ che affida a espressioni, sguardi e tic il dialogo tra la sua interiorità e la sua facciata esteriore.

Divorzio all’italiana e le donne
Eppure, in un mondo maschilista dominato da un patriarcato inossidabile, in cui alle donne è data una identità solo attraverso le parole e il punto di vista degli uomini; una realtà in cui ancora vige la orribile pratica di assicurarsi della verginità di una ragazza; una realtà in cui le donne sono “nascoste dietro le grate, pardon dietro le stecche di vereconde persiane”; un mondo un cui una bella attrice svedese viene definita “un mammifero di lusso, ma senz’anima”, in realtà Fefè si percepisce quasi costantemente come una vittima e un ‘poveretto’ che ‘si fa un film’ che non esiste, fermo alle sue tradizioni medioevali, nonostante la fittizia modernità di registratori ‘spioni’ di ultima generazione e la relativa facilità di movimento personale.
E forse la colpa di questa ‘percezione’ è anche della bella Angela.
L’Angela in abitini chiari e camicie virginali, con lo sguardo sempre chino e il bel volto sempre cosparso di verecondo pudore, appassionata autrice di lettere piene di una passione tardivamente cristianamente repressa, nelle ultimissime scene del film lascia il posto a una donna raffinata e consapevolmente sfrontata, forse ormai esperta della vita, con lo sguardo dritto e fiero, in attesa di riscuotere quanto le è dovuto.

Nel momento in cui avrebbe potuto prendere le distanze da Fefè e da ciò che in definitiva rappresenta, dal delitto commesso nei confronti di un’altra donna, dalle tradizioni arcaiche e dalle pratiche da lei stessa subite lei, pur giovane e istruita, decide di piegarsi e adeguarsi al sistema. Solo superficialmente agente della sua vita, Angela capovolge le prospettive in un ‘piedino’ che fa supporre che non ci sarà una crescita, né una reale presa di coscienza della propria libertà – anche quella di andare a letto con chi si vuole – ma l’ennesima finzione e le ennesime bugie, per una figura femminile che è rivoluzionaria solo nei gesti eclatanti di Mariannina, la protagonista di una caso di cronaca giudiziaria o di Immacolata Patanè, moglie dell’amante, già vecchio spasimante, di Rosalia, uno straordinario (come sempre) Leopoldo Trieste. E queste due donne, personaggi non in luce ma centrali nel film, sono sì funzionali ai piani di Fefè ma ne condividono in qualche modo lo sbugiardano per l’uomo meschino e scioccamente ingenuo che è, convinto che quella ragazza in fiore resterà con lui e gli sarà fedele, senza neppure guardarsi intorno, senza il minimo dubbio sul suo successo. Se il treno con i suoi binari, i suoi scambi e i suoi fischi rappresenta Fefè e il mondo che lui incarna, la corriera che porta dal paese alla città, che porta ‘lontano’ rappresenta Angela, in una illusione di modernità ed emancipazione che non conosce genere, ma che, a diverso titolo, alla fine del film conta tutte le sue vittime.

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