di Laura Pozzi

Appare un tantino fuori luogo considerare la nuova versione di West Side Story firmata da Steven Spielberg e uscita nelle sale il 23 dicembre scorso come un semplice remake magnificamente riuscito della celeberrima e ultra premiata pellicola del 1961 realizzata da Jerome Robbins e Robert Wise. Questo perché a tutti gli effetti un film di Spielberg (nel bene e nel male) resta un film di Spielberg anche quando certi incontri ravvicinati divengono pressoché inevitabili. A conclusione di questa nuova pirotecnica, colorata, travolgente maratona ballerina e sonora, il regista americano imprime due semplici parole “A dad”. Una dedica tutt’altro che scontata, dolorosamente sentita, una sorta di password emozionale che consente allo spettatore di percepire al meglio le ragioni di una pellicola magniloquente, adrenalinica e squisitamente vintage. Spesso quando ci trova al cospetto di spregiudicate rivisitazioni di grandi classici ci si chiede (come in questo caso) quanto sia utile andare a scomodare un caposaldo di Broadway, una pietra miliare del cinema incoronata con dieci premi Oscar, per riproporla ad un pubblico sempre più schierato e rassicurato dalle comode e anaffettive piattaforme digitali artefici tra l’altro di uno strambo e inquietante fenomeno: quello di portare alla ribalta (vedi il caso di Don’t look up) film di cui improvvisamente tutti parlano, ma che durante la permanenza nelle sale non si è filato praticamente nessuno.

Fortunatamente il film di Spielberg (nonostante il clamoroso flop statunitense) viaggia in controtendenza rivendicando ardentemente una memoria cinematografica e un’identità impossibili da sostituire. L’eterno adolescente, stregato da alieni e squali famelici, porta per l’ennesima volta sullo schermo il suo personalissimo sogno costruito sulle fondamenta di un mondo nuovo da far rivivere attraverso le immagini, il montaggio, la fotografia, ma sopratutto la folle e sconsiderata passione per la settima arte. C’è poco da fare i suoi film contano nel loro fantasioso corredo genetico un cromosoma che si identifica con una missione ben precisa da portare a termine: in questo caso l’obiettivo è quello di ricondurre nelle sale più spettatori possibili. E probabilmente i recenti Golden Globe vinti (miglior film, miglior attrice, miglior attrice non protagonista) e le inevitabili nomination ai prossimi Oscar riusciranno in parte nell’intento. Non è una novità che le sue opere per essere apprezzate al meglio necessitano del grande schermo, dell’abbraccio e del calore della sala, del buio che invita a lasciarsi andare per entrare nella magia e alle volte nell’ orrore dei suoi universi. West Side story non fa eccezione e se ne sbatte altamente se a qualcuno il musical è un genere che proprio non va giù. Con tutte le ritrosie del caso ti ritrovi catapultato all’interno di una macchina del tempo che non puoi né fermare, né tantomeno controllare, ma solo affettuosamente assecondare. Spielberg apre su uno scenario post atomico, tra macerie, palazzi sventrati e una società in via di estinzione. Un cartello con sopra scritto Lincoln Center identifica quel posto e lo colloca in un futuro prossimo dove qualsiasi ipotesi di diversità verrà ridimensionata in nome di una gentrificazione feroce e incontrollata.

Tuttavia nei piani più bassi di questo inarrestabile processo ci sono ancora due bande a contendersi una risibile fetta di territorio: i Jets americani di seconda generazione capitanati da Riff (Mike Faist) e gli Sharks emigrati portoricani con a capo Bernardo (David Alvarez), leader carismatico, pugile suonato, compagno dell’energica Anita (Ariana DeBose) e fratello di Maria (Rachel Zegler). Nel mezzo una tormentatissima storia d’amore tra la ragazza e Tony (Ansel Elgort) il miglior amico di Riff appena uscito dal carcere, ma ancora inattaccabile stella polare per i Jets. Un Romeo e Giulietta in salsa metropolitana, sporcato dalla polvere del West Side che diviene palcoscenico ideale per le splendide e fiammeggianti coreografie di Justin Peck, impreziosite dall’incandescente fotografia di Janusz Kaminski e dagli acrobatici movimenti di macchina di zio Steven. Una storia conosciuta e amata da tutti, ma vista da una prospettiva diversa o meglio filtrata dallo sguardo di chi quella storia l’ha vista e ascoltata da bambino grazie a un padre appassionato di musical teatrali (scomparso durante la lavorazione), che ha fatto di quella colonna sonora un mantra e di quel bambino un maestro del cinema hollywoodiano. Del resto il musical era nell’aria come dimostrano i piccoli assaggi contenuti in 1941- Allarme a Hollywood (1979), Indiana Jones e il tempio maledetto (1984) fino al più recente Prova a prendermi (2002). Nonostante la fedele ricostruzione della New York dell’epoca e la mancanza di clamorosi stravolgimenti, ciò che si percepisce e traspira da questo nuovo frenetico adattamento, è un urgenza extradiegetica del tutto assente nella prima versione. I tempi sono inevitabilmente cambiati e anche un nostalgico come Spielberg non può fare a meno di notarlo. Nonostante i colori, l’energia, gli strepitosi balletti sulle note e canzoni di Bernestein e Sondheim, regna un clima d’incertezza e sottile disperazione. L’aria è satura e avvolge quasi soffocandole le vite di quei giovani mai cresciuti che ritroviamo nuovamente sullo schermo a sessant’anni di distanza.

Certo il regista americano non può sottrarsi da un discorso meramente politico fatto di barriere, ingiustizie, intolleranza e discriminazione , ma ciò che rende questo film uguale, ma nello stesso tempo diverso dal capolavoro di Robbins e Wise è lo spirito che lo accompagna. Come dire stiamo assistendo a qualcosa che conosciamo a memoria, eppure chissà perché ci appare incredibilmente distante. O forse ad essere distanti siamo noi che non riusciamo più a distinguere tra finzione e realtà, confondendo il nostro attuale universo distopico con immagini che dovrebbero condurre da tutt’altra parte. Ma è lo stesso Spielberg con una scelta linguistica per certi versi incomprensibile, (quella di lasciare i dialoghi in lingua spagnola senza doppiaggio o sottotitoli) ad alimentare il senso di smarrimento che accompagna il nostro presente Di certo i momenti pù emozionanti si devono a Tony e Maria e ai loro sognanti incontri clandestini. Due innamorati che non temono ostacoli, che contro tutto e tutti continuano a giurarsi amore eterno. Maria è un suono, è il miracolo che Tony attende da una vita. E miracolosa è proprio il caso di dirlo è l’interpretazione della celestiale Rachel Zegler, capace di di tenere testa all’indimenticabile Natalie Wood. Ma tutto il cast è una scelta felice a parte qualche riserva su Ansel Elgort non sempre all’altezza dei colleghi. Basta pensare all’incontenibile e travolgente performance di Ariana DeBose sulle note di America. Ma ancora una volta, la regina incontrastata resta lei: Rita Moreno, già premio Oscar per Anita nel 1961 e qui straordinaria Valentina alle prese con i dubbi amorosi di Tony. Ritrovarla sessant’anni dopo per le strade di West Side è molto più che un doveroso omaggio. E’ una dichiarazione d’amore che sottoscriviamo in pieno.

Hai fatto un’analisi molto intelligente del film che, come hai detto giustamente, non è un semplice remake, ma un’opera completamente spielberghiana con una tecnica registica perfetta e delle tematiche affrontate con una profondità, cura ed empatia da far sbiancare molti film usciti in sala. Soffro ancora per il tremendo flop, si meritava di più e spero che almeno riceva il giusto riconoscimento agli Oscar.
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