di Bruno Ciccaglione

Sin dalla rivelazione iniziale sulla mancanza di una vocazione per la musica (fu il padre trombettista a decidere che il figlio avrebbe fatto il musicista), il destino di Morricone è stato quello di un percorso mai lineare né ortodosso, dalla musica colta ai night club, dal confronto con le esperienze della scuola di Darmstadt all’arrangiamento dei grandi successi pop degli anni ’60, dalle sonorità sperimentali con il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza alle colonne sonore dei film. Aveva senso la ricerca di una sintesi tra tutte queste sfaccettature o non si trattava di ambiti che era preferibile tenere separati? Sarà grazie al cinema che alla fine Morricone troverà una sintesi capace forse di inventare un modo nuovo di essere compositori contemporanei.
In questo senso, al di là della sua apparenza di documentario e oltre il chiaro intento di rendere il meritato omaggio a Morricone, Ennio è un film vero e proprio, perché oltre a raccontare la vita del grande compositore, ne rivela una chiave di lettura molto particolare. Dagli iniziali complessi con cui il compositore affrontava il compito di creare una musica “funzionale” al cinema e quindi mai completamente libera, come si vorrebbe debba essere l’arte, si giungerà all’esito in cui è proprio il cinema ad offrirgli – con lo stimolo ad un confronto continuo con il mondo – la possibilità di un riconoscimento come compositore che viene finalmente compreso e apprezzato anche in ambito colto, parallelamente al suo incredibile successo di massa e commerciale.

Ennio racconta dunque una vita basata sul doppio binario che ha caratterizzato tutta la carriera musicale di Morricone: da un lato l’esigenza sin da giovanissimo di lavorare per affrontare le umili origini familiari, che ha comportato compromessi e scelte commerciali, dall’altro gli studi classici e il difficile rapporto col mondo della musica colta da cui pure proveniva, alla scuola di Petrassi, uno dei più importanti e rigorosi compositori del Novecento. Se quel mondo non esitava a mostrare la più sprezzante riprovazione per il lavoro di arrangiatore dei grandi successi pop degli anni ’60 (con Vianello, Morandi, Paoli, Mina), che infatti per anni Morricone tentò di tenere segreto, come per quello di compositore di musiche per il cinema, pian piano il compositore riuscirà a elaborare una sintesi tra le sue esperienze in ambito colto e sperimentale e quelle per la musica “funzionale”.
In questo senso alcune tappe cinematografiche assumono rilievo particolare, perché consentono a Morricone di fare esperimenti innovativi, tra gli altri: le colonne sonore de Il clan dei siciliani (di Henri Verneuil), quelle per Un tranquillo posto di campagna e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (di Elio Petri), quella per L’uccello dalle piume di cristallo (di Dario Argento), C’era una volta in America (Leone) e Mission (Joffè).

Composto da un impressionante collage di testimonianze – per mole, varietà e fama – realizzate nell’arco di diversi anni (tanto che nel frattempo diversi dei testimoni, come del resto lo stesso Morricone, sono passati a miglior vita), Ennio è un racconto emozionante. Fin dalle sequenze iniziali, che mostrano il novantenne Morricone fare ginnastica a terra la mattina quando si alza, il film sottolinea come il rigore e la determinazione siano stati i tratti fondamentali della sua esistenza. Non si deve dimenticare infatti che Morricone ha sempre puntigliosamente rifiutato l’idea del processo creativo come qualcosa di misterioso e inesplicabile: “L’ispirazione non esiste, o meglio nel mio lavoro c’è per l’1%, il resto è traspirazione, sudore”, amava ripetere.
E le sue parole, qui abbondantemente presenti, con la voce spesso spezzata dall’emozione dei ricordi, sono soprattutto concentrate sulla musica, che era sempre nella sua testa. La trovata di Tornatore di filmarlo nello studio del suo appartamento, circondato da montagne di libri e partiture, mentre dirige un’orchestra che è solo nella sua mente, è tra le più belle immagini originali del film, mescolate ai tanti materiali di repertorio e agli spezzoni di film.

Ma al racconto emotivo, avvolgente per chiunque abbia amato i film con le musiche di Morricone o ne scopra qui la quantità di materiali pop usciti dalla sua penna, il film aggiunge una ricchissima raccolta di analisi che riescono, preziosamente, a qualificare anche tecnicamente le ragioni dell’importanza del lavoro di Morricone nei vari ambiti, soddisfacendo anche la curiosità degli spettatori più preparati musicalmente. Da questo punto di vista, tra le tante testimonianze spiccano quella di Alessandro De Rosa (autore del bellissimo libro intervista Ennio Morricone, inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita) e numerose quelle dei colleghi compositori e musicisti, oltre che naturalmente a quelle del mondo del cinema.
Questa capacità di raccontare in modo accessibile anche gli elementi tecnici della musica di Morricone è uno dei più bei risultati ottenuti dal film di Tornatore (memorabile la spiegazione che il compositore ci regala del gioco degli accenti che aveva ispirato la melodia di Se telefonando, in cui canta e conta il tempo sulla punta delle dita), che così restituisce valore proprio alle cose che a Morricone interessavano di più.

Straordinario, da questo punto di vista, il racconto relativo alla scrittura della colonna sonora di Mission di Roland Joffé. Intrecciando il racconto di Morricone e Joffé con le immagini del film e con diverse esecuzioni dei 3 elementi/temi principali che compongono la colonna sonora, siamo gradualmente messi in grado di comprendere e leggere la complessità della esecuzione orchestrale finale che – questa la innovazione di cui Morricone andava particolarmente fiero e che caratterizzerà molte delle colonne sonore successive – combina questi tre diversi elementi in un’unica esecuzione, in un intreccio altrimenti difficile da cogliere, per un orecchio non adeguatamente preparato.
Il Morricone di Ennio rompe spesso gli schemi. Come sembra suggerire il film, infatti, a partire dalla musica di C’era una volta in America, che finalmente offrirà a Morricone quel riconoscimento da parte del mondo accademico e colto che fino ad allora lo aveva guardato dall’alto in basso, la sua musica diventa ancora più popolare e di successo. Tanto che colti e raffinati musicologi ammettono che la capacità di coinvolgimento emotivo delle composizioni di Morricone è così forte, che perfino il critico è costretto ad abbandonare un ascolto analitico e ad abbandonarsi. Tanto che i temi musicali di Morricone (temi da cui egli sembrava rifuggire, non ritenendoli l’elemento centrale della sua musica) sono ormai cantati negli stadi e come suggerisce Piovani nel finale, hanno costituito un nuovo tipo di musica contemporanea del ventesimo secolo.

Il film si chiude però con il dilemma del compositore davanti al pentagramma bianco. Tornatore lascia giustamente a Morricone l’ultima parola, che si congeda con un invito al rigore, all’impegno, al lavoro. Il musicista deve avere delle idee, non solo musicali, si sarebbe tentati di dire, dopo aver visto come Morricone si sia battuto più volte coi registi sul senso da attribuire ad una scena o ad un film. Per questo motivo, le sue parole sono chiare, a patto di avere gli strumenti culturali che ne consentano la messa in pratica: “La musica va pensata, prima di essere scritta”.