di Laura Pozzi

Che si tratti di un nastro bianco, di una bandiera rossa, di un lasciapassare verde (o per stare al pass coi tempi “green”), l’aberrante e folle strategia dei colori si ripropone indisturbata nel corso della storia, portando con se una feroce e pericolosissima deriva autoritaria edulcorata dalle sfumature del colore prescelto. Michael Haneke, nel 2009 decide di tinteggiare il suo decimo lungometraggio, premiato a Cannes con il massimo riconoscimento conferitogli dalla “crudele” pianista Isabelle Huppert, di bianco e adonarlo con un inquietante e discutibile nastro legato al braccio o ai capelli di alcuni piccoli e peccaminosi disubbidienti come monito di innocenza e purezza. “Non so se la storia che voglio raccontarvi corrisponda a verità in tutti i suoi dettagli. Molte sono le parti che conosco solo per sentito dire e ancora oggi, dopo tanti anni, ci sono misteri rimasti insoluti e numerose domande rimaste senza risposta. Tuttavia, penso sia mio dovere raccontare le strane vicende accadute nel nostro villaggio perché esse potrebbero, in parte, chiarire alcuni processi maturati nel nostro paese”. A parlare è la voce fuori campo solenne e pacata di un vecchio maestro, al quale Haneke affida il compito di narrare i misteriosi eventi che alla vigilia della prima guerra mondiale sconvolgono la monotona e rassicurante routine di uno sperduto villaggio protestante nella Germania del nord.

La piccola comunità di Eichwald dedita al lavoro e fedele alle tradizioni, assiste impotente ad una serie di terribili e efferati accadimenti, apparentemente senza spiegazione e senza colpevoli. In una calda giornata d’estate il medico del paese, uomo guida e figura di riferimento insieme al barone e al pastore protestante cade misteriosamente da cavallo fratturandosi una spalla. Nei giorni successivi, la moglie di un contadino perde la vita sul lavoro, Sigi figlio minore del barone viene selvaggiamente percosso e seviziato, il raccolto di fine stagione viene dato alle fiamme e Karli il figlio disabile della levatrice viene torturato fino a perdere la vista. Un giovane maestro arrivato da un paese non troppo lontano assiste preoccupato all’escalation di violenza e inizia a nutrire qualche dubbio sul comportamento dei suoi allievi, sul loro modo di muoversi in gruppo e sulle ramificazioni di un pensiero unico che troverà terreno fertile nella Germania hitleriana. Si è spesso parlato di questo film come un “profetico” film sul nazismo, ma è importante notare come Haneke regista tra i più lucidi e intransigenti della cinematografia contemporanea sia più interessato a realizzare un’opera capace di evidenziare i rischi e i danni irreparabili provocati dalla diffusione di un pensiero assoluto sottostante ai fanatismi di ogni epoca. Complice un dominio televisivo interessato ad inoculare infinite dosi di politicamente corretto equiparato ad un modello unico di pensiero e comportamento.

Primo film girato in lingua tedesca e nato inizialmente come serie Tv per una rete austriaca, viene successivamente dirottato sul grande schermo per mancanza di finanziamenti. Chi frequenta abitualmente il cinema di Haneke sa perfettamente che ogni sua opera è una vera e propria sfida psicologica, uno snervante, insostenibile, ma anche affascinante logorio mentale, capace di provocare profonde fratture emotive. Da sempre affascinato dai sottili e perversi equilibri che regolano le relazioni umane nel nastro bianco decide di focalizzare l’attenzione sul concetto di assoluto e su come una struttura sociale possa imprimerlo e fomentarlo nella mente dei più giovani. Quando qualsiasi concetto politico o religioso diviene tale innesca una serie di azioni “disumane” caratterizzate da veri e propri atti terroristici compiuti in nome di quei valori. Nel film i ragazzini vengono sottoposti da parte di genitori anaffettivi all’osservanza di regole ferree e di altrettante punizioni in caso di inadempienza. La loro esistenza è pervasa da un logorante senso di colpa, ma anche (come dimostrano Martin e Klara i figli del pastore) da una comprensibile voglia di peccato che sfocia in una cattiva condotta da “tracciare” con un nastro bianco. Un nastro come sottolineato dallo stesso regista, inteso anche come premio, come appartenenza al gruppo, al mondo degli adulti. E come prova di fedeltà nei confronti delle istituzioni in vista di un giusto riconoscimento e collocazione nella società.

Il pericoloso indottrinamento a valori assoluti, basati su ordine, rigore e obbedienza non può che trovare soddisfacimento nella sopraffazione e prevaricazione a danno dei più deboli. Se i misteriosi incidenti appaiono inizialmente giustificati come meritato castigo nei confronti di adulti dediti a crudeltà e nefandezze (il dottore ne rappresenta la più vivida espressione), cominciano a perdere di significato e tramutarsi in feroce abitudine nel momento in cui le violenze sono rivolte verso i più deboli. Il male perpetrato ai danni di Sigi e Karli sono diretta emanazione di una legge morale basata sull’applicazione corrotta di idee corrotte. Haneke “impegna” lo spettatore con un rigore narrativo gelido e sfuggente, caratterizzato da immagini fisse ispirate ad alcune istantanee dell’epoca. I personaggi sono distanti, i loro volti tetri e impassibili, eccezion fatta per il maestro e la bambinaia Eva, i soli capaci di provare amore e compassione verso gli altri. La ricerca e ricostruzione storica pur non ispirandosi a nessuna vicenda reale risulta accuratissima, così come la scelta dei bambini protagonisti, grazie al quale un villaggio anonimo e rurale diviene ben presto un “villaggio dei dannati” capitanato da un gruppo di ragazzini avvolti da un’abbagliante e raggelante bianco e nero dove le chiese assomigliano a tribunali e le funzioni a condanne morali. Il regista lavora molto sull’aspetto formale, la scelta del bianco e nero è anche un modo di allontanarsi dalla materia trattata e aumentare quella distanza che rende Il nastro bianco un’opera ostica, spigolosa, a tratti indigesta, ma terribilmente vera.
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