di Laura Pozzi

L’amore fugge definitivamente dal grande schermo nel 1979 portando via con se Antoine Doinel, François Truffaut, ma soprattutto Jean-Pierre Léaud. Un commiato artistico inevitabile e necessario, reso struggente dall’imminente scomparsa, cinque anni dopo, del grande maestro della Nouvelle Vague. Pensare Jean-Pierre Léaud senza François Truffaut (nonostante la pregevole filmografia firmata da registi quali Godard, Pasolini, Eustache, Skolimowski, Varda) corrisponde per certi versi a privare un intero periodo storico cinematografico di un volto eternamente giovane e senza tempo, capace attraverso una mimica sfacciata e sottilmente irriverente di rappresentare l’ostinata e pulsante estraneità verso la decadenza del mondo moderno. Per questo non sorprende, ma al contrario suscita una leggera euforia dal sapore squisitamente nordico ritrovare il disincantato Léaud protagonista di Ho affittato un killer, ottavo lungometraggio firmato da Aki Kaurismäki nel 1990. Una pellicola di fondamentale importanza per il regista finlandese, quella che di fatto lo spintona verso una maturità e popolarità artistica fuori confine, riconosciuta e premiata in tutto il mondo.

L’azione si svolge all’inizio degli anni ottanta, in un clima “di ferro” cupo e irrespirabile. Siamo nella Londra operaia, tra palazzoni grigi e fatiscenti, locali dai nomi fintamente improbabili e intransigenti dottrine economiche che incalzano le minoranze etniche spingendole verso i margini della società. Una densa coltre di fumo avvolge l’anonima esistenza di Henri Boulanger (Jean-Pierre Léaud) introverso e solitario impiegatuccio francese alle dipendenze di un’importante ditta londinese. A causa delle smodate leggi sulle privatizzazioni che colpiscono in primis gli immigrati viene messo alla porta dai suoi datori di lavoro dopo quindici anni di onorato servizio, con al polso un orologio d’oro che non funziona. Tornato a casa decide di porre fine ai suoi giorni, ma una serie di maldestri tentativi andati a vuoto, lo inducono a rivolgersi a dei loschi individui della malavita locale per “affittare un killer” in grado di portare a compimento la sua disperata missione. Il progetto sembra andare in porto, viene stipulato un regolare contratto con un misterioso boss del quartiere e Henri può finalmente godersi gli ultimi istanti della sua disgraziata esistenza ubriacandosi e fumando per la prima volta all’interno di un pub. Ma l’improvvisa comparsa di Margaret (Margi Clarke), fioraia “in rosso” dal cuore chapliniano rimette tutto in discussione. Ormai è tardi per tornare indietro e rescindere il contratto, il killer (Kenneth Colley) non aspetta altro che piazzare il colpo fatale, ma forse anche per lui le cose non si mettono troppo bene. Non resta che fuggire il più lontano possibile in attesa di un miracolo che si ripeterà alcuni anni dopo a Le Havre.

Ancora una volta Kurismäki intavola una surreale e grottesca partita a scacchi con la morte. Il giocatore prescelto stavolta è un aspirante suicida non più giovanissimo, isolato dal mondo e sul quale grava come un macigno la condizione di straniero. Non sappiamo o meglio non vengono fornite spiegazioni plausibili riguardo al suo allontanamento dalla Francia, ma il pessimismo cosmico venato di inconfondibile umorismo boreale che accompagna ogni suo singolo gesto non può che ricondurre alle rocambolesche avventure dell’irrisolto Doinel. Questo perché tra le viscere di Ho affittato un killer pulsa un cuore cinefilo, che può finalmente omaggiare la settima arte attraverso una pellicola costantemente “ubriaca d’amore”. Il film è dedicato a Michael Powell e Kaurismäki in questa folle, ma credibilissima avventura si concede una vacanza, forse l’ultima, quella in grado (come lui stesso ammetterà) di liberargli la testa (oltre che dalle immagini, dai libri e dai dialoghi lungamente amati) dalle reminiscenze di Last Holiday, commedia interpretata da Alec Guinness e prodotta dai mitici Ealing Studios. Non più Helsinki quindi come scenario della storia, ma una Londra anonima e spettrale caratterizzata da tonalità fredde, popolata da individui distopici, su cui c’è poco da scherzare, ma sui quali si può paradossalmente sorridere. All’interno di questo contesto kafkiano, spicca visibilmente provato l’uomo dei 400 colpi, colui che non ha avuto timore di crescere all’interno di uno schermo cinematografico, condividendo e cristallizzando la sua giovinezza su fotogrammi preziosi come reliquie.

Kaurismaki “affitta” Léaud per realizzare non il suo film migliore, ma di certo uno fra i più personali e significativi. Il risultato è un’opera profondamente nostalgica capace ancora oggi, ( nonostante i riconoscimenti e la solidità drammaturgica dei film successivi) di stupire e incantare attraverso una smisurata purezza e una fiabesca tragicità incarnata da personaggi armati, ma umanamente disarmanti. La figura del killer, magistralmente interpretata da Kenneth Colley ribalta completamente il destino della storia, annullando di colpo le certezze non solo di Boulanger, ma soprattutto le nostre. E’ quasi impossibile prevedere chi siederà al di là della scacchiera per infliggere lo scacco mortale. Tuttavia conoscendo lo spiccato gusto per il grottesco e per l’alcol del suo autore non è da escludere che tutta la vicenda non sia in realtà che il frutto di un eccessivo tasso alcolemico del bevitore provetto Boulanger. Un visione sedotta da un ebbrezza raggelata dove è facile imbattersi in Joe Strummer versione Elvis o assaporare hamburger francesi gentilmente offerti da Serge Reggiani (qui in una delle sue ultime, surreali apparizioni). Non vi è nessuna certezza in questo mondo moderno abitato da gente all’antica, c’è solo voglia di abbandonarsi alle stravaganze di Doinel e magari farsi “un altro giro” in sua compagnia. Pensandoci come future nuvole in viaggio.

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