di Girolamo Di Noto

Tavoli verdi, roulette, dadi, slot machine: il cinema, nel suo indagare sui comportamenti umani, ha più volte toccato il tema del gioco, ha spesso raccontato fasi salienti, esiti incerti connessi all’azzardo, regalandoci film imperdibili e personaggi davvero memorabili. Come non ricordare la contessa impoverita di Montecarlo di Lubitsch che vorrebbe rifarsi al tavolo da gioco o la coppia irresistibile Newman e Redford de La stangata di Hill, pokeristi truffaldini che si beffano di un gangster spietato. Senza tralasciare l’ambizione, il cinismo, il culto del denaro di Casinò di Scorsese o l’intenzione – mal riuscita – di spennare un uomo facoltoso dei protagonisti di Regalo di Natale di Avati.
California poker di Altman si presta anch’esso ad essere annoverato nel filone ludico perché è scanzonato e malinconico, è pieno di eccessi, rumori, luci, sventure, perché rappresenta il rischio come essenza stessa della vita, ma nel contempo tende a distaccarsi perché ad Altman non interessa il gioco in sé, ma la rappresentazione del vuoto di un’America senza più punti di riferimento.

Il film, raccontando la storia di due perdigiorno che vivono alla giornata, non mostra il lato spettacolare del gioco d’azzardo; di gioco vero e proprio se ne vede poco: qualche mano di Texas hold’em, qualche sequenza di corse di cani e cavalli. Ad Altman interessano altri aspetti: attraverso una trama inesistente e uno stile anticonvenzionale caratterizzato da dialoghi surreali, zoom inaspettati, trovate folgoranti e un proliferare di volti e suoni che concorrono alla visione antieroica e reietta dell’America, il regista di Kansas City mette in scena la liquidità di una società in declino, un campionario abbozzato di identità disgiunte, un viaggio tra gli effimeri entusiasmi del gioco, mostrando, a conti fatti, che neanche un possibile trionfo possa riuscire a saziare la fame di felicità e colmare il senso di vuoto.

Bill Denny (George Segal), giornalista col vizio del gioco e Charlie Waters (Elliott Gould), perdigiorno squattrinato che divide il tetto con due prostitute, sono due antieroi dediti alle scommesse e al poker. Un incontro casuale ad un tavolo di poker, una bevuta al bar e le strade di Bill e Charlie si intrecciano da subito. Li seguiremo tra gli ippodromi di Los Angeles e i casinò di Reno mentre cercheranno di dare una svolta alla loro vita. I due protagonisti non hanno un’identità se non racchiusa nel gioco: la loro familiarità con il rischio, le loro eccessive confidenze con la sorte mal si conciliano col mito del self- made man.

I due giocatori rompono con lo schema tutto americano del successo: rigettano il loro passato, non pianificano il loro rapporto in vista del futuro, appartengono al presente e il presente è un lancio di dadi. Altman non si sofferma ad analizzare le loro vite, non predica, ma facendo propria la lezione di Raymond Carver, mostra solo quello che vede e non cerca di capire, forse perché da capire c’è ben poco. “Get in, get out. Don’t linger. Go on”. Entra, esci, non attardarti, vai avanti. Altman non si ferma per scavare sotto le apparenze e cercare di capire.

Con il suo sguardo insolito e uno stile in continuo divenire, lasciando spazio all’improvvisazione degli attori, il regista fraziona la storia in frammenti di immagini, cerca sempre di restituire centralità al contesto spiazzando lo spettatore nei momenti più decisivi. Nella scena, ad esempio, in cui si gioca la partita decisiva, il regista segue il personaggio che non sta giocando, oppure quando i cavalli arrivano al traguardo, riprende altro, solo i suoni ci fanno comprendere quello che succede.
La ricognizione del male di vivere non è descritta a parole, ma raccontata nel volto del pugile sconfitto, nelle espressioni malinconiche di Segal, nelle ammaccature dell’ambiente circostante, nelle parole insensate di Charlie che, nel cercare di tirare su di morale la sua coinquilina, Susan, che arriva a casa in lacrime dopo essersi innamorata dell’ennesimo cliente, le racconta la storia della balena azzurra: “Tu pensa che la lingua della grande balena azzurra pesa più di uno dei più grossi elefanti africani…”.

Non c’è nessuna causalità, nessun senso nel film: ci sono tante donne che si chiamano Barbara, travestiti, falsi poliziotti, scambi di persone, suonatori senza braccio, sovrapposizioni di voci, c’è la vita che, nelle sale da gioco, replica quella di tutti i giorni: davanti alla fortuna, all’imprevedibile, i due si abbandonano come quando sono in strada, dove vengono derubati per due sere consecutive.
Altman sa raccontare con maestria l’euforia e la delusione sottese al gioco, sa descrivere come esso svuoti le tasche e logori le anime, ma sa anche rappresentare il caos che scuote la realtà, la mancanza di punti fermi, sa mostrare come persino la vittoria può essere fatua e amara. Nel mondo di Altman non c’è riscatto, non ci sono alternative alla solitudine: persino davanti ad una vincita stratosferica i due hanno percezione del vuoto e dell’inutilità.

Bill e Charlie non hanno smania di affermazione, non sono parenti del Mandrake di Febbre da cavallo che, nel descrivere chi gioca lo definisce “un fanatico, un credulone, uno che impiccia, muore, risorge, spera e rimuore, tutto per poter dire: Ho vinto!”. Bill, dopo aver vinto 82 mila dollari, si rabbuia e dice a Charlie: “Non c’è stata nessuna sensazione nel vincere”.
La scena finale è un colpo d’ala che cancella la finalità economica del gioco. I due giocatori si accorgono con amarezza che giocare è più interessante che vincere. L’attesa del piacere è essa stessa piacere. Finché si perde si può sempre sperare di rifarsi, ma quando si vince? Il paradosso sta nel fatto che proprio la fortuna al gioco e la vittoria segnano la morte del gioco stesso.

E allora cosa fare? In una delle sequenze più inquietanti ed enigmatici del documentario Apocalisse nel deserto di Werner Herzog si vedono squadre di specialisti riaccendere un pozzo di petrolio che poco prima avevano domato e spento. La voce off del regista così commenta l’azione: “La vita senza fuoco è divenuta per loro insopportabile. Adesso sono contenti. Ora c’è di nuovo qualcosa da spegnere”. Sembra incanalarsi così la vita dei due giocatori dopo il trionfo: la consapevolezza che il gioco è in sé più appagante della vittoria stessa e la vita non è che spegnere un fuoco per poterlo poi riaccendere.
Superbe le interpretazioni dei due protagonisti, in particolare spicca quella di Elliott Gould, attore feticcio di Altman, che sembra un riflesso del Marlowe de Il lungo addio e il suo naso fasciato rimanda al marlowiano Jack Gittes di Chinatown di Polanski. Una volta finito il brivido cosa resta? Nessuna felicità, sembra dirci Altman, solo malinconia, solo lo sguardo fisso di Bill sulla ruota della fortuna che gira.

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