di Roberta Lamonica

Chinatown: una Los Angeles tra passato rurale e presente proto capitalista
Chinatown, capolavoro neo-noir di Roman Polanski del 1974, è una pellicola in cui la visione disperata del regista polacco trova perfetta espressione in una storia ambientata in un anno preciso -il 1937 – e in una Los Angeles ‘plasmata dall’avidità umana’, nelle parole dello stesso Polanski. In questa città in transizione tra un passato rurale e un presente ‘corrotto e industriale’ accadono eventi plausibili, ispirati a fatti reali e inseriti in una storia incredibilmente affascinante: un detective privato dai modi insolenti, una banale storia di tradimento che si trasforma in un’indagine per omicidio, un magnate senza scrupoli, una vedova misteriosa e sfuggente. Un uomo probo, Hollis Mulwray, l’ingegnere responsabile della rete idrica di Los Angeles, diventa bersaglio e vittima designata del potere locale per la sua opposizione a un progetto dannoso per la comunità, ma sullo sfondo della vicenda di corruzione legata alla siccità che affligge la città (piaga quasi biblica mandata, guarda caso, da ‘Noah’ Cross) si cela un segreto orribile e inesprimibile.

Acqua e sguardo: due temi cari a Polanski
In Chinatown sono presenti alcuni dei topoi caratteristici del Cinema di Polanski: l’acqua come elemento confuso, inafferrabile e incomprensibile, associato alla morte, evocata simbolicamente dall’acqua dolce dispersa in mare e sprecata, dallo stagno di acqua salmastra che secca la vegetazione circostante; dalle foto che ‘colano’ impressioni di verità nella bacinella dello studio di Gittes; dal laghetto nel parco. E ancora lo sguardo, così presente nel cinema polanskiano: sguardo che spia, che controlla in specchietti retrovisori, in specchi e vetri; uno sguardo che è quello della macchina da presa che si muove lieve nella storia ma che ‘sopporta’ il peso del punto di vista esterno, degli ‘altri’. Uno sguardo che inganna e distorce la realtà non riuscendo a decifrarla adeguatamente.

Jake Gittes: un personaggio con una parabola narrativa unica e nuova
Polanski si misura con gli stilemi del genere e li adatta al proprio universo filmico pur mantenendo un meccanismo narrativo classico – vicino ai modelli letterari di Chandler e Hammett – fatto di intrighi, corruzione e inganno e tratteggiando personaggi foscamente romantici e destinati a fallire. Sì, perché il private eye Jake Gittes (uno strepitoso Jack Nicholson) nel suo tentativo quasi donchisciottesco di combattere per degli ideali ‘buoni’, funge da reminder per lo spettatore dell’impossibilità di riscatto, del pessimismo esistenziale e della sofferenza a cui l’uomo è destinato fin dalla Creazione. Non c’è redenzione salvifica per lui, come accadeva invece per i protagonisti dei noir degli anni ’40 e ’50; piuttosto Nicholson riesce nell’impresa di dare al personaggio che interpreta un fascino nuovo, una dimensione di umana fragilità e di cambiamento per tutto l’arco narrativo del film: da uomo solo, che vive ‘tanto per’, cercando di dimenticare un episodio accadutogli da poliziotto a Chinatown e a causa del quale aveva deciso di “fare il meno possibile”, diventa una persona attenta ed emotivamente coinvolta per poi perdere ogni soffio vitale dopo la tragedia finale che lo trasforma letteralmente in una marionetta senza anima.

La strepitosa sceneggiatura di Towne contribuisce con grande eleganza a dare forma al carattere di Jake Gittes attraverso dialoghi brillanti e serrati e svelandone i tratti salienti in scene solo apparentemente minori: la scena iniziale con il cliente Curly (Burt Young), in cui si percepisce il suo non essere avido; la scena dal barbiere, in cui si manifesta il suo temperamento sanguigno e il rifiuto netto di accuse di sciacallaggio mediatico; e la scena con il giardiniere, in cui la sua repulsione per Chinatown, che si estende anche a tutti i suoi abitanti, porta alla luce il trauma rimosso, facendo affondare la possibilità di scoprire un indizio fondamentale.

Faye Dunaway, alias Evelyn Mulwray: eroina del film
Non diversamente da Jake, la femme fatale Evelyn Mulwray, una superba e malinconica Faye Dunaway, è un personaggio mutuato dal noir classico e rivisitato in chiave ‘moderna’. Vera eroina del film, impavida e coraggiosa, acquista dimensione tragica nell’essere portatrice di un segreto mostruoso e inconfessabile. Quel “E’ mia sorella, è mia figlia“, ripetuto come in trance, momento supremo di svelamento, è una vetta drammatica ed emotiva ancora insuperata, per chi scrive.

Noah Cross e Chinatown
Il Male assoluto ha le fattezze insospettabili – eppur cosi insopportabilmente WASP – di Noah Cross (John Houston), canuto e cinico manipolatore, mostro e ‘mostro sacro’ di quella Hollywood di cui Polanski si prefigge di scrivere l’epitaffio. E infine la Chinatown del titolo, presenza quasi fisica nel film, luogo non luogo, metafora della intraducibilità delle emozioni, dell’inconoscibilità del proprio destino “A Chinatown non si capisce mai bene quello che succede”, dell’eterno ritorno, di cosa significhi amare qualcosa e poi perderla, angolo di velata memoria e di anime che vivono in un tempo sospeso, in una dimensione in cui il passato viene rimosso e si sovrappone al presente parassitandolo, rendendolo vago ed indistinto, lasciando i protagonisti nella terribile certezza dell’impossibilità di vivere il futuro.

“Che cosa può comprarsi che già adesso non abbia?”, chiede Jake a Noah “Il futuro, Mr. Gittes… il futuro”. Comprare il futuro: non cose, non case, di certo non amore. Comprare il potere di controllare Il tempo, il potere di dilatarlo, allungarlo all’infinito per poi magari comprimerlo, riavvolgerlo, cambiare ciò che è stato. Un potere non dato alla gente comune, destinata al dolore per l’unico fatto esistere, ma a quei pochi che hanno abdicato alla loro umanità per entrare in una dimensione di sinistra e mefistofelica disumanità.

Sinistre anticipazioni
E il futuro che si profilava all’orizzonte per i protagonisti del film e i protagonisti della genesi stessa del film sarebbe stato quanto mai incerto e indefinito. Primo film del regista polacco dopo l’assassinio di sua moglie Sharon Tate, solo tre anni dopo Polanski venne accusato di aver drogato e violentato una 13enne e fuggì dagli States; Robert Evans, vicepresidente della Paramount che aveva spinto per la realizzazione del film, lasciò la sua posizione e Robert Towne, il talentuosissimo e geniale sceneggiatore, premiato con l’Oscar per quella che viene considerata una delle migliori sceneggiature mai scritte, finì nel vortice delle dipendenze, cosa che gli impedì in seguito di scrivere come lui sapeva.

Il mondo che quel cinema raccontava e quel tipo di Cinema erano finiti: nel 1975 arrivò Jaws, il primo blockbuster della storia e a Hollywood un nuovo modo di fare cinema, di raccontare una storia per immagini in movimento, prese definitivamente piede. È per questo che, come ha ottimamente argomentato Sam Wasson nel suo The Big Goodbye, Chinatown può essere a ragione ritenuto uno spartiacque, un saluto definitivo, dolente e magnifico all’America prima del Watergate e della Guerra del Vietnam; un addio all’innocenza, in qualche modo, un salto in un futuro che avrebbe ingoiato nella celluloide tutti i suoi protagonisti.
“Lascia perdere, Jake! È Chinatown.”
Un film disperato ma anche a suo modo romantico, quindi. La suggestiva colonna sonora di Jerry Goldsmith, le raffinate scenografie e soprattutto la fotografia ambrata di John A. Alonzo – che illumina le esterne di un sole afoso e sbiadito e le scene notturne di un buio denso e impenetrabile come il cuore nero e corrotto di Chinatown – concorrono alla unicità di questa grande opera d’arte cinematografica.

Nell’ indimenticabile finale si spera fino all’ultimo che la Packard Twelve Convertible di Evelyn venga risucchiata dal buio che delimita Chinatown, le sue bugie, le sue illusioni e invece la speranza si spezza su un clacson che ‘grida’ senza sosta e sulle lacrime di un’altra incolpevole vittima di quel Male che agisce nell’ombra, che approfitta delle debolezze dell’animo umano e alla fine vince. Sempre. L’innocenza sarà violata ancora e ancora e allo spettatore non resta che assistere al trionfo della morte e alle vuote parole di consolazione per Jake, l’ultimo degli illusi, quel “Lascia perdere Jake, è Chinatown” che mette una pietra tombale sulla speranza dell’uomo per un mondo ( e forse anche per un cinema) in cui il bene, il bello e la cura abbiano ancora una piccola, flebile chance.
