di Marzia Procopio
“Possiamo aver finito con il passato, ma il passato non ha mai finito con noi”
Scritto diretto e prodotto da Paul Thomas Anderson, interpretato da un cast eccellente – Julianne Moore, Jason Robards, William H. Macy, Melinda Dillon, Philip Seymour Hoffman, Melora Walters, Philip Baker Hall e da un intenso Tom Cruise – Magnolia è uno di quei film che non invecchiano e che a rivederli non stancano mai, perché ci sono dentro gli esseri umani: si posa, scuote, parla al cuore, e ogni scena diventa un quadro nella mente dello spettatore, perché al centro del suo discorso pone i sentimenti universali di tristezza e perdita, mostrando bambini feriti e adulti che si autodistruggono. Il tema centrale è infatti l’incapacità di amare di genitori crudeli, l’egoismo degli adulti nei confronti dei loro figli innocenti e soprattutto i suoi effetti devastanti, che lasciano nei protagonisti paura, odio, disgusto, un profondo senso di solitudine e inadeguatezza alla vita.

Film corale i cui protagonisti sono legati tra loro da un filo sottilissimo rappresentato dal personaggio del produttore di uno show televisivo, il terzo lungometraggio di Anderson, il regista de Il petroliere e Licorice pizza considerato tra i migliori della sua generazione, mette in scena con compassione e rispetto i dolori dei suoi personaggi. “Quiz Kid Donnie Smith” (William H. Macy), celebre da bambino in uno show televisivo, è divenuto dipendente dall’alcool, lavora in un negozio di mobili ed è innamorato senza speranza di un avvenente barista. A Donnie sono stati sottratti dai suoi genitori tutti i soldi che aveva vinto da bambino nel quiz, e ora vive un’esistenza solitaria, bloccato non solo in un lavoro da cui viene licenziato, ma anche nella speranza e nelle aspettative, nei sogni. Nella sua fissazione – credere che il modo migliore per farsi notare dal barista Brad sia mettersi l’apparecchio, come lui, derubando il suo ex datore di lavoro – c’è un interessante meta-elemento: l’uomo ha chiaramente avuto l’idea da un film o da un programma TV, e non gli viene in mente che una cosa del genere non sia così facile da realizzare nella vita reale. Incredulo per aver pensato e creduto in un simile gesto, troverà aiuto in uno dei due personaggi sani e positivi del film. A Donnie fa da specchio Stanley Spector (Jeremy Blackman), il piccolo genio protagonista del programma televisivo What Do Kids Know?. Suo padre va sempre di fretta, lo porta in biblioteca o negli studi televisivi gridando, rimproverandolo, esortandolo a sbrigarsi e a vincere; lo “vede” infatti, e lo fa esistere, solo se Stanley vince, se ha tutte le risposte, finché il bambino, in un momento cruciale della trasmissione, con i pantaloni bagnati perché gli è stato proibito di andare in bagno, si rifiuta di alzarsi in piedi per andare a rispondere al centro dello studio televisivo: con un vibrante discorso da adulto, lui sì, e incalzando i falsi adulti a rispondere, pone domande che non trovano risposte utilizzando la rinuncia, la sconfitta, la ribellione a quel sistema come affermazione di sé.

Il presentatore dello spettacolo è Jimmy Gator (Philip Baker Hall), che ha un cancro e due soli mesi di vita davanti. Non vede Claudia (Melora Walters), sua figlia, da 10 anni: la donna, cocainomane senza speranza, lo odia per un abuso che lui, colpito da una inspiegabile rimozione, non confesserà. Una sera, chiamato dai vicini infastiditi dal frastuono proveniente da un appartamento, un poliziotto (John C. Reilly) bussa alla porta di lei, e dopo un’insolita chiacchierata da cui lo spettatore ne comprende la purezza e la bellezza, Jim le chiede un appuntamento. Jim è quel poliziotto che, verso la fine del film, scorto Quiz Kid Donnie Smith mentre cerca di entrare di nascosto nel negozio, ascolterà la sua confessione e lo aiuterà a fare la cosa giusta; non è un poliziotto eccezionale, ma è un uomo con un cuore grande: i suoi occhi miti ed espressivi rivelano la sua umanità inesauribile e toccante. Impossibile non credere in lui, nelle sue buone intenzioni, nella sua costernazione dopo che ha perso la pistola e nella sua goffa tenerezza mentre corteggia Claudia; la donna, con la sua tossicodipendenza e la sua infanzia traumatica, potrebbe essere troppo da gestire per Jim, ma lui vuole provare, e il fatto che qualcuno sia disposto a provarci, ad accogliere le sue storture, i suoi lati oscuri, è più di quanto lei abbia mai sperimentato ed è ciò che forse la salverà.

Lo spettacolo è prodotto da “Big Earl” Partridge (Jason Robards). Suo figlio, che non vede da molti anni, è il guru intriso di PNL Frank Mackey (Tom Cruise), che riempie le sale degli hotel con le sue conferenze “Seduci e distruggi”: oggetto dell’odio di questi uomini frustrati, perdenti, pieni di risentimento sono le donne. Quando Frank era bambino, Earl aveva abbandonato lui e sua madre, malata e poi morta di cancro, e ora che sta morendo della stessa malattia, lo fa cercare dall’infermiere Phil (Philip Seymour Hoffman), la figura che, insieme al poliziotto, fa il possibile per offrire aiuto, speranza e amore a queste vite che sono come relitti. Phil è l’unica persona in grado di “vedere” veramente Earl nei suoi ultimi giorni e, insieme a Jim, la bussola morale del film. Tanta parte della carriera di Hoffman è stata dedicata all’interpretazione di perdenti e perdenti inquieti, ed è commovente vederlo in un ruolo del genere, fatto di un calore e di una gentilezza che provengono quasi esclusivamente dal suo talento (e dal suo corpo in particolare, se si considera che Anderson ha scritto la parte pensando a lui). Non sappiamo molto di Phil, ma il fatto che offra conforto a Earl e pianga per la sua morte imminente ci basta: Earl conta, almeno per lui, come Claudia per Jim, e questo è sufficiente. La seconda moglie di Earl, la bellissima Linda (Julianne Moore), che lo aveva sposato per soldi, scopre di amarlo e si dispera per aver tradito quell’uomo che sta per morire lasciandola sola. Ignora che il vecchio ha confessato al suo infermiere di non aver mai smesso di amare la sua prima moglie.

Come fatto cinematografico, il film ha un inizio che inganna, perché si apre con un piccolo documentario su morti accidentali che si configurano come coincidenze sorprendenti narrate dal mago e incantatore Ricky Jay, il cui libro Learned Pigs & Fireproof Women si vedrà poi aperto davanti al piccolo Stanley durante uno dei suoi pomeriggi di studio. La voce di Jay comparirà di nuovo alla fine, per ricordarci che coincidenze e strani eventi sono reali come tutto il resto e ammonirci a prestare attenzione al nostro comportamento, perché ha effetti che vanno ben oltre le nostre capacità di prevedere. Il messaggio della cornice sembra essere che nessuno di noi è speciale: tutti siamo alla mercé di ciò che la vita decide di lanciarci addosso, e abbiamo la possibilità di scegliere solo come gestirlo. La decisione di iscrivere le vicende dei protagonisti in uno spazio di eventi inspiegabili sembra voler suggerire che abbiamo tutti bisogno di qualcosa al di là dell’umano per attingere un’altra dimensione di consapevolezza e aggiungere una qualche speranza di pace.
Il personaggio di maggior impatto, quello che all’uscita del film sembrò spiazzante perché le teorie e le tecniche della PNL solo da una decina di anni si erano imposte all’attenzione del grande pubblico, è senz’altro il Mackey di Tom Cruise, che fu nominato come Miglior attore non protagonista non ottenendo, incredibilmente, la statuetta, che quell’anno andò a Michael Caine: ex ragazzino lasciato a prendersi cura della madre morente da un padre che ha abbandonato la famiglia, Frank, che è la cosa del film più vicina a un villain, è diventato un coach che aiuta uomini misogini, insicuri e frustrati a procacciarsi appuntamenti; durante le sue affollate conferenze usa frasi come “Rispetta il cazzo e doma la fica”, mentre l’insicurezza e la tristezza aleggiano nell’aria intorno a lui. La riunione di Frank con Earl, al suo capezzale, è piena di rabbia e dolore: è tornato nella vita di suo padre solo per affrontare la sua perdita di nuovo, per sempre. Cruise, che sceglie di correre un rischio interpretando, a quel punto della sua sfavillante carriera, un personaggio che sembra non avere qualità positive quasi fino alla fine, è perfetto nell’interpretazione del personaggio che più interroga nel film: perché, pur essendo stato vittima del padre, odia le donne? In una scena sul letto di morte di suo padre (che ricorda Brando seduto al capezzale della moglie morta in Ultimo tango a Parigi), le mani dell’uomo sono così serrate che le dita sembrano esangui. Poco prima ha perso il controllo durante una delle sue esibizioni. Il suo crollo sembra rimandare ai crolli gemelli del piccolo Stanley e poi del conduttore Jimmy Gator, che si trovano entrambi, pur per motivi diversi, incapaci di esibirsi nello show televisivo. Anche gli altri personaggi vivono dei momenti di blocco: Linda cerca nel tentativo di suicidio una via d’uscita alla propria disperazione, Claudia non riesce a comportarsi come dovrebbe durante il primo appuntamento con Jim, e poco prima anche il poliziotto ha perso la sua pistola; dal canto suo, Donnie non sa dire a un altro uomo che lo ama e arriva a mettersi in pericolo per la sua inettitudine.

In una bellissima sequenza, Anderson segue la maggior parte dei personaggi principali, compreso Earl morente, facendo cantare a tutti, uno dopo l’altro, Wise up di Aimée Mann, autrice della centralissima colonna sonora; è una canzone malinconica sulla consapevolezza, che dice come la vita sia solo una lunga, spesso solitaria, serie di incontri ed eventi fatali sui quali, per quanto ci sforziamo, non abbiamo alcun controllo; in tal senso, Magnolia è probabilmente il film più polarizzante e fastidioso, per i tocchi melodrammatici, di Paul Thomas Anderson. A ben guardare, però, a differenza di molti altri film con trame interconnesse, la scrittura vuole utilizzare tale dispositivo narrativo in un modo più profondo e filosofico: i suoi protagonisti sono uniti da una disperazione esistenziale che si trova al di sotto di ogni possibile conoscenza, laggiù dove si trova il destino, come “raggiunti” dalle loro azioni e dalle loro scelte. La scena più celebre e impressionante di Magnolia è la straordinaria sequenza che conduce all’epilogo, quando dal cielo di Los Angeles piovono – anticipate da un cartello nel film in cui si cita Esodo 8:2: “E se rifiuti di lasciarli andare, ecco, colpirò tutto il tuo territorio con le rane” – rane vive, pesanti e implacabili, su tutta la città. Una pioggia che somiglia a una nuova piaga giunta a punire gli uomini da un cielo misterioso e cupo ma che porterà lo scioglimento dei dolori, delle tensioni, la liberazione dalle angosce e dalle paure.

Apprezzato come uno di quei rari film che funzionano su due registri diversi che gli conferiscono una tonalità agrodolce, Magnolia si guadagnò da subito il plauso di Ingmar Bergman ed entrò nel novero dei film imprescindibili del cinema del secondo ‘900. Raccontando storie coinvolgenti con precisione e qualche tocco di delicato scetticismo, il film può essere accostato anche a una parabola: dopo aver sentito il dolore di queste persone, dopo aver visto dispiegarsi l’amore del poliziotto e dell’infermiere, i due personaggi puri e sani del coro, lo spettatore impara qualcosa di intangibile ma necessario da sapere. Ha l’audacia di durare più di tre ore, ma non c’è una vera trama di cui parlare; c’è pochissimo conflitto (e quando c’è, non è mai veramente risolto), non c’è il viaggio dell’eroe, nemmeno inteso come formazione ed evoluzione, e se i personaggi sperimentano qualsiasi tipo di crescita o cambiamento, esso è quasi impercettibile, quanto basta per farli andare avanti il giorno successivo.

Nonostante le loro connessioni e il fatto che tutti si muovano entro pochi chilometri dallo stesso luogo, molti dei protagonisti non si incontrano mai. Sono tutte piccole increspature negli stagni dell’altro, che vengono indirettamente associate per caso, come capita nella vita reale, dove siamo tutti protagonisti nei film della vita di altre persone: in Magnolia, che potrebbe somigliare a una serie di cortometraggi legati tutti da un filo, accade lo stesso. A volte il filo è così sottile che riesci a malapena a vederlo, ma è lì. Molti dei personaggi, senza mai rendersene conto, hanno qualcosa in comune: Claudia e Linda sono entrambe tossicodipendenti, Frank e Claudia si rifiutano entrambi di usare i cognomi del padre, Earl e Jimmy hanno entrambi il cancro, Jimmy e Donnie sono entrambi alcolizzati. Anche i due ragazzi del quiz, Donnie e Stanley, entrambi contano, per i loro genitori, solo quando stanno vincendo soldi. Il fatto che il padre di Stanley, verso la fine del film, con la faccia insanguinata presumibilmente per l’incidente delle rane, ignori gelidamente il suggerimento di Stanley di dover “essere più gentile” con lui, è la prova che il ciclo continua sempre, nel bene o nel male. Forse Stanley crescerà per essere proprio come Donnie, o forse qualcosa che non vedrà mai arrivare gli farà cambiare strada.
Magnolia non ha un lieto fine, ma ne ha uno che apre a una promessa. La pioggia di rane, col suo strascico di sangue, ha fatto tabula rasa e riportato chiarezza e speranza. Ogni giorno in cui ci svegliamo e scegliamo di andare avanti, è un altro giorno in cui le cose cambiano e vanno per la strada che ci auguriamo; e se non è quel giorno, allora forse il giorno dopo, o quello dopo ancora. Non lo sapremo se non andiamo avanti. Il dolore di Earl finisce e, sebbene sia un incontro colmo di rabbia e dolore, è riuscito a vedere suo figlio un’ultima volta. La pistola scomparsa di Jim riappare, apparentemente caduta dal cielo. Quando Linda si risveglia dal tentativo di suicidio, troverà seduto al suo capezzale proprio Frank, che fa i primi passi per lasciar andare anni di dolore e rabbia. Nella scena finale Claudia (appropriatamente, dato che è stata il primo personaggio creato da Anderson), sicura di aver respinto il gentile e tenero Jim con tutte le parti spezzate di lei, viene smentita dalla realtà: l’uomo è lì e sta chiedendo un’opportunità per stare con lei, per essere la forza, la presenza e la tenerezza di cui lei ha bisogno. Claudia, con i suoi occhi stanchi e pieni di lacrime che dicono la verità su questa vita così dura e così lunga, guarda Jim mentre fa il suo discorso. Poi ci guarda e sorride. Un po’.
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