di Bruno Ciccaglione

“Nell’appartamento vuoto e opaco – e tuttavia sede privilegiata di un erotismo risplendente – abita Eros; tutto il resto del mondo è abbandonato al dominio di Thanatos. Dunque l’anonimità sessuale è la vita; l’identità sociale è la morte”. Così scriveva Alberto Moravia nel 1972, nella sua recensione di Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, il film che segnò la definitiva consacrazione mondiale del regista, che nel frattempo per questo film veniva perseguito e condannato in Italia per “attentato al comune senso del pudore”, assieme ai suoi “sodali” Aurelio Grimaldi (produttore), Marlon Brando e Maria Schneider (i due attori protagonisti). La sentenza ordinava anche la distruzione di tutte le copie del film.

Era un mondo diverso da quello di oggi, quello del 1972: per capire l’impatto di uno scandalo simile, bisogna immaginare una società in cui il cinema era al centro del costume e del dibattito culturale. Inevitabilmente, dunque, le vicende legate al film o alla sua realizzazione, hanno polarizzato la discussione (che possiamo sintetizzare con la formula arte vs pornografia), banalizzandola. Addirittura, a oltre 135 anni dalla nascita del cinema, per Ultimo Tango a Parigi c’è ancora chi crede che quello che si vede sullo schermo sia avvenuto davvero agli attori che interpretano il film (una scena di sesso, una di violenza, una di dolore). La seconda uscita del film nel 1987 e poi quella della versione restaurata nel 2019, almeno, hanno consentito una visione più distaccata di un film in cui non c’è nemmeno un fotogramma, fin dai titoli iniziali – con due straordinari dipinti di Bacon che definiscono i riferimenti figurativi e di atmosfera che saranno propri dell’opera – che non sia di grandissimo cinema.

Il film precorre i tempi, non tanto per l’aver mostrato una sessualità esplicita o pratiche sessuali allora meno accettate, ma per aver caricato di un significato dirompente le scene di maggiore impatto. Nella famosa “scena del burro”, la filastrocca che Paul ordina ad una Jeanne in lacrime di ripetere, recita: “La famiglia, santa istituzione inventata per educare i selvaggi alla virtù (…). Santa famiglia, sacrario dei buoni cittadini [lei grida di dolore] dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia”. In diretto collegamento con questa scena, segue più avanti l’altra scena di sesso anale, che per analogia potremmo dire la “scena delle unghie”: dopo che Jeanne gli confessa di essersi innamorata di lui, Paul le chiede di tagliarsi le unghie della mano e di penetrarlo. Anche qui, Paul provoca Jeanne e mentre si offre a lei dice: “vado a comprare un porco e ti faccio scopare da questo porco: lo faresti questo per me?”. C’è sfida, sottomissione, desiderio di dominio: la sessualità e l’amore assumono tra questi due sconosciuti anche queste forme. Se però questa libertà nelle pratiche erotiche è oggi ampiamente accettata e praticata dalle giovani generazioni (si pensi ai rapporti “poliamorosi” o alle pratica delle dark rooms), nel film erano legate anche a una feroce critica sociale, mentre oggi riguardano la sfera privata e individuale. Maria Schneider, infatti, sarà segnata per tutta la vita, non da quel che avvenne sul set (non avvenne nulla di quel che stupidamente a volte si ripete), ma dal trattamento che la società maschilista e machista le ha riservato, non solo allora, ma per tutta la vita. Se ancora nel 1973 in una intervista al New York Times appariva divertita dello scandalo e anzi lo cavalcava con la spregiudicatezza dei vent’anni, poi svilupperà un odio per Bertolucci che l’accompagnerà per sempre (mentre rimase amica di Brando, del quale ricordava l’atteggiamento paterno). Non a caso la “scena delle unghie”, che invece smontava il mito di Brando come sex-symbol maschile per eccellenza, non viene mai ricordata.

Il film si basa sulla “idea romanzesca”, come scrisse Moravia, di un appartamento in cui si fa l’amore senza sapere nulla dell’altro: un “dentro” di verità e bellezza, non sempre idilliaco (anzi…), ma un autentico spazio di libertà. “Fuori” i due protagonisti sono dei normali borghesi, più o meno alla moda: Paul è un americano di mezza età (Marlon Brando) che piange il suicidio di una moglie che non lo amava (più), proprietaria di una squallida pensione. Jeanne è una giovane e brillante ragazza (Maria Schneider), in procinto di sposarsi col suo fidanzato regista (Jean-Pierre Léaud) che la filma con la sua troupe in un continuo mescolamento tra finzione e vita reale, visioni di emancipazione e una aristocratica tradizione familiare. Col procedere del film impariamo chi sono i due sconosciuti che si incontrano regolarmente in segreto nell’appartamento vuoto. È Paul che spinge sull’acceleratore in questa sfida a cancellare, almeno lì dentro, ogni riferimento ai ruoli che ciascuno ha nella società, alla ricerca di un eros libero da condizionamenti, alla ricerca di una verità che fuori forse è impossibile. Jeanne si adatta, affascinata ma anche confusa da questo gioco, ma poi cerca di elaborarlo riportando le sue riflessioni “fuori”, nelle conversazioni su cui si basa il film che sta girando con il fidanzato. Parlando di matrimonio Jeanne, che sta per sposarsi, parla del “matrimonio dei manifesti” pubblicitari, il “matrimonio pop”: moglie e marito sono come due operai, con la loro brava tuta da lavoro, ben omologati all’interno della fabbrica sociale. Il divorzio? Un guasto al motore del matrimonio: o si ripara o si cambia macchina. Il tradimento? Invece che due operai in tuta ce ne sono tre, quattro… “E l’amore? Anche l’amore è pop?”, chiede il fidanzato. “No, l’amore non è pop”. L’amore – spiega Jeanne – è quando gli operai si tolgono la tuta da lavoro, si incontrano in un appartamento segreto e tornano ad essere uomini, donne e fanno l’amore.

Come sempre in una forma di arte popolare ed industriale come il cinema, un grande film è il risultato non di un artista solitario, ma di molti contributi, qui tutti straordinari. La sceneggiatura è di Bertolucci e Franco Arcalli, i dialoghi francesi furono adattati da Agnès Varda, parte dei contenuti delle conversazioni tra Maria Schneider e Jean-Pierre Léaud fu scritta – così raccontò Bertolucci molti anni dopo – proprio da Alberto Moravia. La fotografia è uno degli elementi più potenti di questo film: Vittorio Storaro non aveva ancora vinto nessuno dei suoi 3 Oscar (per Apocalispse now di Coppola, Reds di Beatty e L’ultimo imperatore, di nuovo con Bertolucci), ma era già uno dei più originali e innovativi direttori della fotografia del mondo, capace davvero di usare la luce come farebbe un pittore sulla tela, colorando le immagini in modo unico: ispirato, su indicazione di Bertolucci, dalla pittura di Bacon, Storaro costruisce le scene dell’appartamento usando varie gradazioni del colore arancione, che domina il film. Le musiche – un altro elemento straordinario del film – sono di Gato Barbieri, il jazzista argentino rifugiato in Italia, che compone i temi e poi lascia l’orchestrazione all’abile mano di Oliver Nelson, ritagliando per il suo sassofono soprattutto lo spazio di improvvisazioni malinconiche e seducenti. E infine ci sono gli attori, assolutamente decisivi e bravissimi, tutti (indimenticabile, oltre ai tre già citati protagonisti, anche Massimo Girotti, nel ruolo dell’amante della moglie di Paul). Il film andrebbe visto in lingua originale: Paul e Jeanne parlano in inglese dentro l’appartamento, mentre all’esterno, nella società, tutti parlano francese, un altro modo per sottolineare la contrapposizione tra il “dentro” e il “fuori”.

Brando, alla soglia dei 50 anni, invecchiato benissimo, è la stella indiscussa del film. In sceneggiatura Bertolucci si divertirà a costruire la biografia del personaggio da lui interpretato, che viene raccontata da una domestica, inserendo una serie di citazioni per cinefili: “faceva il pugile, ma gli è andata male, poi è diventato attore, ha trafficato nel porto di New York, ha fatto il rivoluzionario in America del sud; giornalista in Giappone, un giorno sbarca a Tahiti, s’arrangia, piglia la malaria, poi arriva a Parigi e qui trova una con un po’ di soldi e se la sposa” (chiarissimi i riferimenti a Fronte del Porto (1954), Viva Zapata!, Sayonara, Gli ammutinati del Bounty). Il personaggio è dunque carico di suggestioni, animate con grandissima abilità dall’attore. Provoca Jeanne fino all’inverosimile con il suo sfidare le regole e le convenzioni, eppure quando lo vediamo fuori dall’appartamento quasi non riconosciamo lo spirito libero che affascina la giovane Jeanne: diversamente da Jeanne, dell’esoperienza che sta vivendo nell’appartamento, lui non porta niente fuori. Maria Schneider, pur giovanissima, riesce a costruire con Brando un rapporto molto positivo, e darà al suo personaggio una forza che cresce man mano che il film procede. Jean-Pierre Léaud entra in scena con una troupe cinematografica e la sua presenza ci porta immediatamente nel cinema della Nouvelle Vague, in un gioco di riferimenti e citazioni senza fine. La regia è audace e intensa, con movimenti di macchina eleganti e tagli di inquadratura sempre particolari.

Ma torniamo alla vicenda, che, come si può immaginare, volge verso il dramma. Jeanne arriva a dichiarare il suo amore a Paul. Un amore per uno sconosciuto di cui non sa nulla. Eppure alla fine sarà lui, che pure aveva fissato le rigide “regole” del loro gioco d’amore in libertà, a non essere all’altezza di quel gioco, desideroso di chiudere la parentesi che questi esseri umani spogliati dalle scorie del mondo hanno saputo costruire e animare. Paul rompe dunque lo schema e tenta l’impossibile: trasferire “fuori” quel che lui e Jeanne hanno costruito “dentro” l’appartamento. È la donna, come spesso accade, a capire. Jeanne non è più la ragazzina un po’ freak che abbiamo conosciuto all’inizio del film, ha davvero fatto un percorso di maturazione: l’idea di rivestire di uniformi borghesi quell’amore è una idea impossibile, squallida e deprimente, come sono i momenti trascorsi insieme nel finale del film in una sala da ballo durante una gara di tango. Nel finale tragico del film, la sua è una verità incontestabile: “Mi ha seguito per la strada e voleva violentarmi. È un pazzo! Il suo nome non lo so, non so come si chiama. Uno sconosciuto”

- Nota Bibliografica
- Bernardo Bertolucci, di Stefano Socci, L’Unità/Il Castoro, 1995
- Maria says her tango is not blue, Judy Klemesrud, The New York Times, Feb. 4, 1973
- Il film in lingua originale e con sottotitoli in inglese è disponibile su Vimeo