di Andrea Lilli –

L’amore è più potente di qualunque superpotere e di ogni malattia: per volare oltre le mura della rassegnazione e i confini dello squallore quotidiano non c’è bisogno di essere supereroi, basta innamorarsi e pedalare, superando in tandem le difficoltà imposte da un mondo ostile. Il secondo lungometraggio di Wissam Charaf, 49enne regista franco-libanese, ha inaugurato le Giornate degli Autori al 79° Festival del Cinema di Venezia.
Delicato, attentamente calibrato negli ingredienti: autobiografia, poesia, ironia, denuncia e un pizzico di magia, è un film a basso budget e ad alta intensità che racconta il fragile ma tenace rapporto di due giovani innamorati profughi a Beirut, crocevia di esuli politici ed economici del continente africano.

Mehdia, etiope, risiede come tuttofare a tempo pieno presso una coppia di libanesi benestanti. Oltre ai servizi domestici ordinari deve occuparsi h24 di un anziano ex colonnello che, afflitto da demenza in stato avanzato, di giorno è docile, domato dai farmaci, ma la notte delira e vaga pericolosamente tra le stanze, immedesimato in Nosferatu il vampiro, cui peraltro somiglia fisicamente. Alla ragazza, tenuta sotto ricatto dall’agenzia del lavoro che ‘custodisce’ il suo passaporto, non viene concessa una vita normale: deve garantire l’ordine domestico e la serenità del vecchio Ibrahim, sopportarne gli assalti notturni, ma le è vietato chiudersi in camera, ricevere amici, uscire la sera, prendersi una vacanza, tornare a rivedere i propri familiari.

Il siriano Ahmed invece è un povero rifugiato che dorme in letti di fortuna, magari condivisi secondo turni con altri immigrati, e campa riciclando rifiuti metallici cercati tra i palazzi dei quartieri ricchi di Beirut, come quello in cui è reclusa Mehdia. Colpito da una bomba al fosforo nell’ormai decennale guerra civile siriana, il suo corpo presenta le conseguenze ad effetto prolungato di un morbo chimico che devasta progressivamente la spalla e il braccio destro, oltre a numerose, minuscole schegge che pian piano emergono dalle cicatrici. Anche lui non è libero di uscire la sera, perché ai profughi siriani di Beirut è imposto il coprifuoco. Anche lui non può cercare liberamente un lavoro regolare, in quanto siriano.

L’amore tra i due nasce spontaneo e sarebbe pulito, facile e sereno ma il razzismo, la miseria, la guerra – cronici flagelli interdipendenti, che qui non vengono mai sbattuti in faccia allo spettatore – tendono a renderlo difficile, sporco e pericoloso. Ahmed e Mehdia sembrano troppo deboli per opporsi a un destino infelice, e invece malgrado tutto riescono a sognare insieme, a seguire il loro sogno. Con un po’ di fortuna, che comunque aiuta sempre gli audaci, aggirano la schiera di personaggi che traggono abitualmente profitto dalle difficoltà dei poveri cristi – schiavisti, mediatori, dottori, falsari, trafficanti di organi, giornalisti -, spezzano le catene della schiavitù (lei) e dei legami familiari (lui). Cercheranno insieme un futuro migliore, altrove. Noi restiamo invece qui, mentre scorrono i titoli di coda, colpiti dallo stile sobrio e incantatore di un regista che ricorda a tratti Kaurismaki e Jarmusch, ma che mostra un tocco tutto originale nel raggiungere i suoi obiettivi: parlare d’amore vero in un contesto che lo nega, evitare il patetico nel restituire dignità e speranza agli ‘invisibili’.
I due attori protagonisti (ma anche il bravo Rifaat Tarabay/colonnello vampiro) si sono calati in pieno nei ruoli; Clara Couturet è semplicemente meravigliosa; il commento musicale risolto in pregevoli tracce evocative, mai inopportune. Il finale aperto rispetta l’impostazione antiretorica di questo ottimo lavoro, nato dall’esperienza diretta di Charaf e realizzato da una co-produzione francese, libanese e italiana.

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