di Bruno Ciccaglione

Cadaveri eccellenti è forse il film di Rosi che più di ogni altro scioglie ogni equivoco sul valore artistico del suo cinema: il suo affresco del potere nell’Italia degli anni ’70, infatti, pur pieno dei riferimenti espliciti e realistici al contesto sociale e politico tipici del suo cinema – che hanno fatto parlare di Rosi come del padre del cinema di impegno civile – è un quadro metafisico e quasi surrealista, pieno di invenzioni figurative e di immagini cariche di tensione: il suo è cinema all’ennesima potenza, come solo i grandissimi autori sanno realizzare.

È il 1974 quando Francesco Rosi, durante un viaggio di ritorno dagli Usa, legge il romanzo Il contesto – Una parodia (1971) di Leonardo Sciascia e ne resta folgorato, decidendosi a trarne un film che uscirà nel 1976 e che segnerà una delle vette più alte della sua cinematografia, provocando uno dei momenti di più vivace discussione e polemica nella irrequieta società italiana dell’epoca. Dai romanzi dello scrittore sono stati tratti diversi film, spesso di buona o addirittura di ottima fattura ed è noto che lo scrittore siciliano – che pure era un amante del cinema, in particolare del cinema francese – non abbia voluto collaborare alla sceneggiatura di nessuno di essi, reputando il film semplicemente un’opera diversa dal romanzo, frutto della libertà creativa di un autore diverso. E infatti in alcuni casi i registi hanno scelto la via di una infedeltà anche marcata dall’opera letteraria (si pensi a Todo Modo di Petri, che Sciascia commentò dicendo che Petri sembrava più ispirato da Pasolini e dalla sua idea di un processo al palazzo che non dal suo libro; eppure disse anche che il film gli era piaciuto molto).

Non è questa però la scelta di Rosi, che invece vuole essere il più fedele possibile al libro, tanto da prendere interi dialoghi per utilizzarli integralmente nel film. Dei nove film realizzati fino ad allora, Rosi aveva girato un solo film a partire da una opera letteraria (Uomini contro, tratto da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu). Ma il desiderio di restare fedele ai romanzi scelti poi via via nella sua carriera (si pensi al memorabile Cristo si è fermato a Eboli), per Rosi non significa mai perdere di vista il mezzo che sta utilizzando: la città immaginaria del romanzo diventa reale attraverso la sua messa in scena e Rosi rende esplicito o inventa ciò che Sciascia aveva lasciato in una ambigua penombra; il Partito Rivoluzionario Internazionale del libro diventa quel che molti avevano immaginato che fosse, il PCI; i paesaggi urbani imprecisati del libro diventano quelli di Palermo, Lecce, Napoli, Roma; le uniformi dei militari di un paese non esplicitamente individuato nel romanzo diventano quelle riconoscibili dei militari italiani, della Celere italiana. Ma la sensibilità artistica di Rosi non si limita certo ad una messa in scena realistica degli aspetti non precisati dal romanzo. Per questo, ad esempio, decide di utilizzare prevalentemente il grandangolo, per creare distanza e straniamento: il potere e la morte, i due grandi protagonisti del film (e forse di tutto il cinema di Rosi), sono rappresentati in una atmosfera metafisica e surreale.

Sin dalla strepitosa sequenza iniziale, che porta all’uccisione del Procuratore Varga (l’allora ultraottantenne Charles Vanel), Rosi mostra tutto il suo genio creativo partendo dal centro, senza preamboli né mediazioni, come gli era usuale: un altissimo funzionario dello stato, un rappresentante del potere, visita e attraversa le Catacombe dei Cappuccini di Palermo, piene di mummie, in una atmosfera spettrale. Primissimi piani e dettagli delle rughe, che il tempo e la vita hanno disegnato sul viso bellissimo di Charles Vanel, sono giustapposti al montaggio con i dettagli e le pieghe dei volti mummificati dei potenti di un tempo. L’altissimo magistrato, apprenderemo, sperava di ottenere dai morti eccellenti della città, in confidenza, i segreti dei vivi: un dialogo tra il potere e la morte, dunque.

Incaricato di indagare sulla misteriosa serie di omicidi di altissimi magistrati e giudici, l’ispettore di polizia Rogas (Lino Ventura, che grazie alla presa diretta voluta da Rosi recita per la prima volta in Italia con la propria voce), si imbatte in un tentativo di colpo di stato orchestrato da pezzi degli apparati statali, delle forze armate, dei partiti di governo. Attraverso la sua indagine assistiamo allo svelamento del “contesto” del sistema del potere nell’Italia degli anni ’70, che l’opinione pubblica aveva scoperto a partire dalle indagini sulla strage di Piazza Fontana del 1969, fino al crescente sgomento che deriverà dall’emergere dei tentativi di colpo di stato, dalle stragi, dai misteri d’Italia. Come ha brillantemente ricostruito e spiegato Benedetta Tobagi nel suo libro Piazza Fontana. Il processo impossibile (2019), gli apparati dello stato dell’inizio degli anni ’70 e soprattutto i vertici delle forze dell’ordine e della magistratura, erano ancora ampiamente dominati da figure che avevano fatto carriera durante il fascismo e ci vorrà del tempo prima che un ricambio generazionale li trasformi.

Il film di Rosi mette in scena proprio questi alti magistrati, che considerano se stessi come sacerdoti di una liturgia della giustizia che pretende di essere imposta come un dogma (si pensi allo straordinario monologo di Max Von Sydow, che se la prende perfino con Voltaire), cui una volta morti rendono omaggio, in pompa magna e fianco a fianco, le autorità costituite e la mafia, tra proteste studentesche, cariche della Celere e gas lacrimogeni.

Rosi come sempre carica ogni immagine di suggestione. Le scene sembrano ambientate in un futuro distopico pur nel realismo del materiale ripreso, sia negli interni che nei paesaggi urbani. La luce creata dalla fotografia di Pasqualino De Santis è rarefatta, il sole del sud che illumina le città ce le mostra polverose sotto il solleone, il fumo sale dall’immondizia che copre le strade. La macchina da presa trova sempre le posizioni più efficaci per la narrazione. Infine, ma non ultimo, gli attori sono straordinari. Oltre alla performance maiuscola di Ventura, non si possono non citare, nei ruoli secondari, le straordinarie interpretazioni di Max Von Sidow, Paolo Bonacelli, Fernando Rey e Renato Salvatori.

Breve quanto maestosa l’apparizione del gigante del cinema francese Charles Vanel, la cui presenza riempie lo schermo, all’inizio del film, come pochissime volte capita di vedere al cinema (pare che Sciascia, amante del cinema di René Clair, ne sia rimasto ammirato). Vanel aveva più di 80 anni all’epoca ed al suo primo giorno di riprese, Rosi aveva un certo timore di informarlo, che per prima cosa avrebbe dovuto distendersi in una bara per il funerale del suo personaggio. Per vincere ogni eventuale scaramanzia dell’anziano attore, all’arrivo di quest’ultimo sul set, Rosi decise di farsi trovare al suo posto, disteso nella bara. La reazione di Vanel, come raccontato da Rosi, fu di chiedergli ridendo di alzarsi e lasciargli il posto: “Per quel ruolo lì, io sono molto più preparato di te!”

In una sequenza che evoca la decadenza della festa del Gattopardo di Visconti (Rosi ne era stato assistente), il film ci porta nei salotti della borghesia romana, dove il Ministro della Sicurezza (Fernando Rey) prova a spiegare all’incredulo ispettore Rogas come nel “palazzo” i conflitti in realtà siano ormai più un gioco delle parti – “Li ha visti? Giocano!” – e come egli non veda l’ora di gustarsi il momento in cui a bastonare i manifestanti in piazza sarà presto un suo successore, espresso dalla opposizione, e cioè dal PCI.

Il protagonista vero del film, da un punto di vista delle dinamiche del potere, infatti, è il Partito Comunista Italiano, che venuto man mano a conoscenza delle trame più oscure, paga un prezzo di sangue altissimo con l’uccisione del suo segretario, che non a caso si chiama Amar (geniale ambiguità di Sciascia che così evoca amarezza e amore al tempo stesso). E tuttavia per senso di responsabilità sceglie di tacere la verità, così assicurandosi la cogestione della crisi politica, sia pure in un ruolo subalterno alla DC. In un certo senso il libro e il film preannunciano – e stigmatizzano – il compromesso storico.

Dunque un thriller politico, una disincantata rappresentazione del potere, una impietosa stigmatizzazione della corruzione al potere e della capacità di corrompere del potere stesso. Come spesso avviene nei romanzi “gialli” di Sciascia, l’indagine di chi tenta di scoprire la verità è una indagine fallimentare. Ma se in A ciascuno il suo (sia il libro che il film di Petri) la sconfitta del professore Laurana è dovuta soprattutto alla incapacità dell’intellettuale di capire che cosa succeda davvero nel mondo – il che lo espone a rischi mai davvero compresi a pieno – qui l’investigatore ha solo la colpa dell’integrità morale, della fedeltà alla legge. È lo stato che è eversivo, in questa vicenda grottesca che Sciascia nel sottotitolo definisce come “una parodia”. Rogas sembra anticipare la tragedia delle purtroppo numerose figure di “eroi borghesi” che popoleranno le cronache e la storia degli anni successivi al film: la ricerca della verità, lo scrupolo di coscienza di un investigatore, l’isolamento.

Emblematicamente il film si chiude in una sala riunioni in cui campeggia – come in tante sezioni del PCI che ne esponevano delle riproduzioni – il grande dipinto di Renato Guttuso I funerali di Togliatti, tutto giocato sul contrasto tra il rosso delle bandiere e il bianco e nero degli uomini, i leader storici del comunismo internazionale, che dovrebbero incarnare i valori che quelle bandiere rosse rappresentano. Ancora una volta è la costruzione delle immagini, che guida Rosi nel condurci fino alla provocazione finale. Al cospetto di una immagine che vuole racchiudere tutta la storia di un ideale, Rosi sembra voler accentuare il contrasto colore/bianco e nero che Guttuso aveva scelto come cifra estetica, dandogli un valore ancora maggiore e più dirompente. È qui infatti che viene pronunciata la famosa frase che chiude il film, tutta di Rosi e non presente nel libro di Sciascia: “La verità non è sempre rivoluzionaria”.
