L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica (1954)

“Tutta la mia attività registica la svolgerei sempre a Napoli, perché è una città che veramente mi dà degli impulsi umani, poetici, artistici, Napoli è la città più fotogenica, più umana, di tutte le città d’Italia e del mondo”.

(Vittorio De Sica)

di Roberta Lamonica

Eduardo De Filippo ne Il professore, episodio che chiude il film

Uscito nelle sale il 23 dicembre 1954, L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica, venne accolto come un ‘azzardo’ del Maestro, dove azzardo non significava ‘sperimentazione’ ma piuttosto un’ulteriore involuzione in un genere – il Neorealismo, di cui De Sica era stato assoluto protagonista – che sembrava aver esaurito il suo potente messaggio artistico e sociale e che ormai rispondeva al mero compiacimento di un certo tipo di pubblico.

La presenza di Totò nel cast, ne Il guappo, episodio di apertura del film per giunta, contribuì al clima di generale diffidenza che accolse la pellicola all’uscita. La maschera grottesca del gigante della comicità partenopea infatti trovava ancora delle resistenze tra coloro che non ne avevano capito la grandezza e la versatilità.

L’oro di Napoli è tratto dalla omonima raccolta di racconti di Giuseppe Marotta che sceneggiò il film insieme allo stesso De Sica e Cesare Zavattini e si avvale del sapiente montaggio di Eraldo Da Roma, delle musiche di Alessandro Cicognini e della fotografia di Carlo Montuori.

La grandezza di De Sica in questo film risiede oltre che nella maestria e padronanza del mezzo tecnico nel riuscire a trasporre per lo schermo con rara sensibilità l’emozione che Marotta aveva versato nei suoi racconti, scritti a Milano nel 1947.

‘O pazzariello di Totò

Il film è diviso in sei episodi – pennellate decise e indimenticabili- aspetti, caratteristiche, colori e dolori di una città e di un popolo, stratificato, composito e complesso come l’urbanistica che ne definisce il volto e l’anima. Ma la divisione in episodi è solo formale in quanto l’ ‘oro’ del titolo funge da filo conduttore immateriale, intangibile ma sempre reale e presente. L’oro di Napoli, ossia quella pazienza nel sopportare i capricci del destino ma anche la speranza di domarli o aggirarli, quei capricci e trovare qualcosa di buono nel panariello calato dalla propria finestra. L’Oro di Napoli, quella capacità di essere profondamente umani, aperti all’altro e il caleidoscopio di emozioni, positive o meno, che il napoletano restituisce a ogni incontro. La risorsa di una città devastata dalla guerra che trovava in sé le risorse per sopravvivere. Un filo che unisce un popolo non definibile attraverso un solo aggettivo, ma appunto attraverso ‘l’oro’ di questo popolo: la sua versatilità nell’affrontare le situazioni e le contingenze della vita non secondo uno spirito razionale ma secondo un’istintiva inventiva ed emotività determinate di volta in volta dai mille contesti e incidenti dell’esistenza di ognuno dei protagonisti: sia essa la capacità di reagire di una famiglia vessata da un guappo che però prova tenerezza e bene nei confronti dei bambini che tiranneggia ma che pure ama, o la rassegnazione di una donna che decide di pagare lo scotto del suo passato ‘colpevole’ per sfuggire al freddo di una notte senza fine; o le lacrime trattenute e dignitose di una madre segnata dal più atroce dei lutti o ancora la bonaria indulgenza verso le debolezze di un uomo cui la nascita ha regalato un posto al sole ma anche una moglie sgradevole e intransigente.

Sei episodi, si diceva, uno dei quali, ‘Il funeralino’, (addirittura espunto da alcune versioni) funge da cesura tra due ideali ‘tempi’ del film che si apre con ‘Il guappo’ (con protagonista Totò) e si chiude con ‘Il Professore’ (con un monumentale Eduardo De De Filippo, tutto il suo teatro in pochi minuti). Nel mezzo, quasi specularmente, gli episodi che vedono protagoniste Sophia Loren e Silvana Mangano, le quali donano corpo e arte a due splendide figure femminili, Sofia e Teresa: la prima, procace e seducente, è la moglie infedele e sfrontata di un marito geloso, un pizzaiolo ‘oggi a otto’ (mangi ora e paghi fra otto giorni) e cioè un esponente di una tradizione che si nutriva di solidarietà e fiducia nel prossimo. Verrà gabbato, il bravo Giacomo Furia, ma tutto sommato la vita può continuare, secondo l’esempio del disperato vedovo interpretato da Paolo Stoppa, che rinuncia ai suoi propositi suicidi davanti a un fumante piatto di spaghetti.

La seconda protagonista femminile, al contrario, prostituta in una casa di tolleranza, pensa di essere stata ‘salvata’ dal matrimonio con un uomo borghese che in realtà l’ha sposata solo per esporla, umiliarla ed umiliarsi così da espiare la presunta responsabilità nel suicidio di una giovane corteggiatrice.

I morsi della vergogna e di una dignità calpestata forse più dal bello e algido marito che da decine di clienti, deformano il viso bellissimo di Silvana Mangano che guarda la notte davanti a sé, appoggiata al palo di un lampione, anticipando in qualche modo le lacrime e la forza della vita di Giulietta Masina che bucano lo schermo in Le notti di Cabiria.

Il funeralino è il più breve degli episodi, molto neorealista e quasi muto. Sembra essere meno coerente con il tono generale del film, insieme all’episodio con la Mangano, ma in fondo rappresenta in qualche modo solo il lato “meno assolato della strada”, quel misto di malinconia e velata tristezza che è cifra e indicatore dello specifico napoletano.

Teresa De Vita, inconsolabile madre del bimbo morto ne Il funeralino

Il dolore di una madre (Teresa De Vita, attrice non professionista) che vuole congedare il figlio morto con un funerale con tutti gli onori; un muto corteo che silenzia il vociare e il brulicare dei vichi e che lei vuole passi ‘per la la via grande’, dove il progresso prende la forma di moderne automobili che sfilano agili sul lungomare e da cui Sorrentino probabilmente ha preso ispirazione per l’incipit del suo ultimo sforzo, È stata la mano dì Dio . Un contrasto forte, interrotto dagli scugnizzi che raccolgono i confetti che la madre distribuisce sul suo cammino. “Non ce ne sono più”, constata con un filo di voce e si scioglie finalmente in un pianto dimesso e dignitoso, mentre la morte e la vita, il pianto e il riso si incrociano e si sovrappongono come solo a Napoli succede.

La carrozza funebre de Il funeralino

Scolari e scugnizzi che si fondono in questo episodio così come nel Gennarino dell’episodio che vede protagonista lo stesso De Sica, ‘I giocatori’: “la carta sa dove deve andare”, dice il figlio del portiere che gioca con il nobile decaduto e interdetto dal gioco delle carte. Fortuna e abilità, sfida al vecchio sistema di divisioni per nascita e classi sociali; una livella, un ‘pernacchio’ a quella nobiltà ammuffita e inutile che pur abita ancora il ventre di Napoli. Tradizione, sceneggiata, pazzarielli, camorristi, apparenze, pizza fritta, credenze, miseria, dignità e nobiltà. Tanta nobiltà, nel cuore e nell’animo. L’infanzia, sempre tanto centrale nel cinema di De Sica, qui assume il ruolo di giudice silenzioso delle meschinità degli adulti (come nell’episodio di apertura, Il guappo) ma anche quello di forza dirompente per promuovere un cambiamento dal basso (Gennarino che sfida il nobile conte Prospero, inchiodandolo al suo fallimento della giocatore e di uomo).

Nella saggezza popolare di Don Ersilio Miccio, nel fronte comune degli abitanti del vico contro il nobile arrogante; nell’unita della famiglia contro i soprusi del Prepotente, De Sica svela il mistero profondo e la poesia di Napoli e cioè sopravvivere a tutto rimanendo uguale a se stessa, perché “a Napoli i vichi stretti e i palazzi alti nascondono il Sole ma non il cielo, negli intonaci crollati e nei buchi nelle pietre cresce l’erba, la vita, perché la gente è povera e tuttavia trova il modo di colmare il vico con l’odore di cucinato, perché i vestiti che uno si mette addosso sono sempre gli stessi, però stesi fuori colorano le stradine e le profumano di bucato”.

(Credits to Vesuviolive.it)

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