di Fabrizio Spurio
Parlare di “The menu” è come parlare di un universo chiuso. E’ una di quelle pellicole in cui i personaggi, anche avendo una storia, un retroscena, sembrano comunque vivere al di fuori del mondo, e in un certo senso anche al di fuori della logica. Il film crea veramente un universo a parte, un microcosmo chiuso che vive e muore in se stesso. Alcune persone, attentamente selezionate, sono invitate su un’isola in un esclusivissimo ristorante, dove lo chef Julian Slowik (Ralph Fiennes), esperto in cucina molecolare, preparerà per loro alcuni piatti da lui ritenuti assolutamente unici e perfetti. Il meccanismo si inceppa quando Tyler (Nicholas Hoult), uno degli invitati insieme alla sua fidanzata, si presenta con un’altra ragazza, Margot (Anya Taylor-Joy), non prevista tra gli invitati.
La cena è divisa in cinque portate, presentate dallo chef con una introduzione per spiegare la simbologia che ogni portata rappresenta. A questo punto della pellicola è chiaro che il ristorante è una trappola dalla quale nessuno potrà uscire. L’intento dichiarato dello chef è uccidere tutti, lui compreso. Per lo spettatore più smaliziato è già tutto chiaro e la pellicola, in realtà, riserva ben poche sorprese. Margot è l’unica invitata che non era prevista e quindi, oggettivamente, lo chef non ha potere su di lei (mentre sembra conoscere i vizi di tutti gli altri ospiti). Questo destabilizza i suoi piani e già all’inizio si capisce che sarà proprio Margot la sola superstite del folle piano dello chef.

Andando però a scavare nella pellicola ci si chiede il perché di tutto questo meccanismo. Quella dello chef è una personale vendetta contro quei clienti, quel mondo, che in realtà non si sofferma sul piacere dei suoi piatti, non gusta fino in fondo il dono che il cuoco, con tutta la sua maestria, si impegna ad offrire ai palati dei commensali. Per lui mangiare i suoi piatti, vuol dire assaporarli fino in fondo, vivendo un’esperienza sensoriale unica ed irripetibile. In effetti afferma di non cucinare mai le stesse portate. Il carisma di Julian è potente, tanto che gli basta battere le mani, una volta sola e forte, per richiamare l’attenzione degli ospiti della sala e della sua truppa di aiutanti in cucina. Il colpo delle mani assume un significato sempre più forte ad ogni presentazione di portata. Quel gesto significa che tutti devono dargli attenzione, che nulla è più importante delle sue parole. Neanche il suicidio di uno dei suoi assistenti, suicidio oltretutto richiesto dallo stesso chef quando dichiara al suo sottoposto che non riuscirà a raggiungere il suo livello. Ma a questo punto l’illogicità della pellicola inizia a farsi sentire. Dopo il suicidio del cuoco, dopo l’annegamento di uno degli ospiti e dopo l’amputazione del dito di un altro cliente che voleva andarsene, ci si domanda perché gli ospiti, di numero superiore, non si siano ribellati al loro carnefice, continuando invece a confabulare tra loro alla ricerca di un modo per liberarsi. Quello che risulta più fuori luogo è il perché continuino ad eseguire gli ordini dello chef e mangiare le portate come se nulla fosse, anche se quello che sembra correre tra i tavoli è più imbarazzo che vero e proprio terrore. Anche dopo aver assistito a queste azioni violente i commensali continuano a criticare i sapori delle pietanze, a parlare delle cremosità. Emblematico in questo senso il comportamento di Tyler, totalmente assorbito ed estasiato dalla cucina dello chef. Il ragazzo, pur di assaporare i piatti del suo idolo, non si lascia minimamente sfiorare dalle azioni che coinvolgono il ristorante, anzi, prova quasi un senso di fastidio davanti a quelle urla, a quelle manifestazioni di protesta che trova oltremodo fuori luogo. Lui è li soltanto per lo chef e nulla può distoglierlo da quello, anche se questo provoca il totale sbigottimento di Margot. Siamo nell’assurdo. Naturalmente Margot sembra essere l’unica veramente intenzionata ad andarsene. Il metodo che utilizzerà per farlo è tutto cerebrale. Sfida lo stesso chef, mettendo in crisi la sua capacità di cucinare un piatto che lei desidera. Il film si lascia andare a diverse letture: la perdita della felicità sacrificata alla realizzazione di se stessi, la rabbia di non vedere apprezzato il proprio lavoro, e soprattutto, la scoperta che la gioia, molto spesso, si trova nella semplicità. Ma ci si chiede anche il perché di tutta questa operazione.

Perché Julian deve uccidere tutti, anche se stesso? Questo implica da parte sua l’ammissione di aver fallito, cosa che non è successa in quanto lui è lo chef più famoso al mondo (nel suo mondo). Perché punire i suoi ospiti? Soltanto per non aver apprezzato a pieno il suo lavoro? O per alcuni vizi da loro perpetrati (un cliente ha una relazione extraconiugale, un altro ha mentito sul lavoro, altri tre hanno sottratto soldi alla loro società)? Tutto questo riporta alla mente dello spettatore la saga di “Saw-l’enigmista”, ma li il serial killer intendeva punire dei peccati ben più considerevoli rispetto a questi: si trattava di punire persone che in qualche modo avevano offeso la vita, distrutto esistenze. Siamo ben lontani dal misero capriccio di un cuoco dalla mente instabile, profondamente frustrato. Quindi realmente non c’è un vero motivo per cui tutte queste persone debbano morire. In questo contesto poi si presenta un buco di sceneggiatura notevole: durante la serata una delle portate è una piadina. Su questa piadina sono incise, a fiamma, immagini che simboleggiano il “peccato” del cliente, in realtà si tratta di stampe pirografiche da foto. Nello spettatore rimane l’interrogativo di sapere come lo chef sia giunto in possesso di tali prove. Tutto rimane sospeso e inspiegato, sperando che questo elevi Julian ad un livello di super killer simile ad un culinario Hannibal Lecter (chef di ben più succosi manicaretti). Nell’insieme della pellicola sono sicuramente da lodare la scenografia del ristorante, essenziale e minimalista in realtà un bunker di lusso, la fotografia patinata con le soffuse luci da ristorante che creano un’atmosfera intima, e le prove degli attori, tutti perfettamente calati nei loro ruoli.
Rimane la delusione di aver preso parte ad un menu bello a vedersi ma dai sapori molto sciapi.

Rispondi