“A parola mia sono tutti uguali. Arrivano qui di corsa dai paesi loro e prima di riprendere fiato già vogliono insegnarci a vivere. Ah, ma che pretese, questi emigranti!”
(J. Warden, giurato numero 7)
‘La parola ai giurati’ (12 Angry men) di S. Lumet ( 1957), con H. Fonda, L. J. Cobb, E. Begley.
Un caso di omicidio di primo grado. Dodici giurati sono chiamati a pronunciarsi sull’innocenza o colpevolezza di un diciottenne immigrato dei bassifondi newyorkesi accusato di parricidio. Se dichiarato colpevole, il ragazzo morirà elettrificato.
Il primo bellissimo lungometraggio di Lumet viene premiato con l’Orso d’Oro a Berlino e con tre nomination agli Oscar (ma quell’anno Il Ponte sul fiume Kwai fece man bassa di statuette).
Il film, adattamento da uno sceneggiato per la televisione di Reginald Rose, è un ‘courtroom drama’ che ha forse solo ne ‘Il buio oltre la siepe’ un degno concorrente nel genere e per la capacità di accrescere la tensione emotiva e per l’attualità dei temi trattati. Il film di Lumet ha un’impronta fortemente teatrale ed è interamente basato sui dialoghi, sulla parola. ‘La parola ai giurati’ ha, inoltre, una pressoché totale fedeltà alle tre unità aristoteliche: è quasi interamente recitato nella stanza della giuria, in un lasso di tempo di poche ore, in un’unica azione. I giurati li conosciamo solo per numero, perché più che individui rappresentano stereotipi di una certa società americana degli anni ‘50, di cui Lumet sembra voler cogliere gli aspetti più controversi ed irritanti.
Lumet è geniale nel rendere l’atmosfera del film gradualmente più tesa e claustrofobica, stringendo progressivamente i primi piani sui volti dei giurati man mano che l’ansia sulla posizione da assumere sale nella stanza.
H. Fonda viene presentato come colui che maieuticamente riuscirà a ricondurre i propri ‘colleghi’ a una visione critica e non pregiudizievole dei fatti. I tratti eleganti, l’abito di colore diverso rispetto agli altri giurati, una maggiore luminosità sul volto e la pulizia, la limpidezza dello sguardo ne fanno una specie di ‘giusto’ predestinato, l’unico in grado di ‘vedere’ realmente la realtà dei fatti: trovata anche questa funzionale e vincente dal punto di vista drammaturgico.
Ma ciò che rende questo film ‘irrinunciabile’ , a parere di chi scrive, non è solo la maestria nella scrittura della sceneggiatura e la qualità della regia.
Ciò che lo rende un capolavoro è la sua incredibile attualità. Nelle parole dei giurati di un processo degli anni ‘50, nelle loro posizioni intransigenti, nel loro blaterare schiumoso riecheggia e gronda tutto l’odio e la xenofobia, la mancanza di condivisione e l’ottusità che sessanta anni dopo sentiamo così immutate e contestualizzate: “Quella gente mente istintivamente! Insomma, non dovrei neanche dirvelo… non sanno cos’è la verità. E credete a me, non hanno neanche bisogno di un vero movente per uccidere. Nossignore: si ubriacano! Sono degli ubriaconi! Tutti quanti! E lo sapete! E bang! Qualcuno è a terra accoltellato. Nessuno vuole criticarli, in fondo sono fatti così per natura, non so se mi spiego… sono bestie! “, dice il giurato numero 10, prima di crollare emotivamente schiacciato dalla consapevolezza dell’orrore delle parole pronunciate. Quel ‘loro’ ripugnante, contrapposto a un ‘noi’ legittimo e legittimato è il vero coltello che taglia la carne della vittima. Il pregiudizio.
La condanna preventiva che ci consente di non guardare a quella fotografia nel nostro portafogli come vessillo del nostro fallimento.