Scendendo con Argento all’ ‘Inferno’

di Fabrizio Spurio

Nel 1980 arriva nelle sale ‘Inferno’. È probabilmente l’apice del cinema di Dario Argento. Siamo nel sogno totale, o meglio, nel delirio. Se già in Suspiria la sceneggiatura era divisa in mini film, qui ci troviamo in una vera e propria concatenazione di situazioni quasi indipendenti.

Il film è cupo, notturno e chiuso. Pochi i momenti di luce in esterni. Si vive all’interno della Casa, cuore della vicenda. Il palazzo è un microcosmo autosufficiente.

Inferno è un film che punta al basso. Chi scende nelle profondità della Casa è perduto e non ha possibilità di ritornare in superficie.

Esaminando gli omicidi, in tutti c’è un riferimento che indica la discesa senza ritorno, concetto preceduto e aperto dall’immersione di Rose (Irene Miracle) a inizio film. La donna è costretta a scendere in una stanza allagata nei sotterranei del palazzo. Si immerge (e noi con lei, grazie ad una soggettiva acustica che ci mette a parte di quel mondo dai suoni ovattati) in un liquido amniotico che la riporta in quello che si rivelerà essere il “ventre della Madre”. Ma nel momento del pericolo, dello spavento, rappresentato da un cadavere scarnificato che fa la sua repentina apparizione nella scena, alla ragazza viene impedito momentaneamente di tornare in superficie, sia dallo scheletro che la perseguita, sia, molto più fisicamente, dal soffitto contro il quale urta in preda al panico.

Il tema della discesa e della trappola è forte.

Ecco come viene rappresentato nei vari omicidi che costellano la pellicola. Nell’ordine: in una scena simbolica mentre delle mani guantate decapitano delle bamboline di carta (quasi un rito voodoo), una donna si impicca.

Altra scena, Sara (Eleonora Giorgi), per cercare di contenere il panico quando la luce va via nel suo appartamento, entra nello stanzino del suo appartamento dove Carlo (Gabriele Lavia) sta cercando di sistemare il quadro elettrico. Nello stanzino scende tre o quattro gradini, quando ecco che le cade contro Carlo colpito a morte. L’uomo agonizzante la porterà giù a terra con lui e le impedirà di risalire quei gradini, di guadagnare una speranza di salvezza.

Il colpo mortale le viene dato sulle scale, Sara non riuscirà a risalire sul pianerottolo.

È poi la volta di Rose che si sente braccata e scende le scale dello scantinato; arriverà ad una finestra rotta attraverso la quale sarà aggredita, tirata indietro e trattenuta giù da due mani e ghigliottinata (di nuovo un movimento in verticale che le impedirà di rialzarsi), il suo corpo rimarrà accasciato sul davanzale. Elise (Daria Nicolodi) percorrerà lo stesso tragitto di Rose, quando tenterà di risalire le sarà impedito dalle serrature delle varie porte che spera di aprire per salvarsi, che invece si chiuderanno al comando dell’entità che governa la Casa (questa è una sequenza esemplare, il dettaglio delle serrature che scattano a tutto schermo rende potentemente l’idea della trappola); verrà aggredita da alcuni gatti in uno stanzino nella quale è stata costretta ad arrivare, ed il colpo di grazia, l’ultima cosa che si vedrà, sarà il coltello che scende verso il basso con il colpo mortale inferto fuori scena.

La sequenza dell’omicidio di Kazanian (Sacha Pitoeff) è esemplare: l’uomo è storpio, cammina solo con l’aiuto di stampelle. Scivola in acqua, in mezzo ad un pantano vicino ad uno sbocco di fogne, non riuscirà a riprendere le stampelle e non potrà più risalire in piedi. Verrà macellato a terra da un venditore ambulante, in una sequenza che potrebbe essere, giustamente, il manifesto del delirio imperante nell’intera vicenda.

Il delirio di un Male imprevedibile ed onnipresente. Ma continuiamo con l’analisi: il maggiordomo John (Leopoldo Mastelloni) viene agguantato da dietro una tenda, in dettaglio vediamo il cordone della stessa tenda che cade in maniera precisamente verticale a terra. E’ poi la volta di Carol (Alida Valli) che avvolta dalle fiamme precipita dalla finestra nel lucernario sottostante. L’architetto paralitico Varelli (Feodor Chaliapin), che cadendo con la carrozzella, rimarrà strangolato dal laringofono, non potendo più issarsi sulla carrozzella per salvarsi dal cappio. Mark (Leigh McCloskey), protagonista quasi involontario del film, sarà l’unico che una volta disceso, riuscirà a risalire e a riconquistare la speranza di vivere, questa volta la salvezza dell’uomo risulta essere una sconfitta per la Casa (personaggio vivo della vicenda: respira attraverso condotti d’areazione, il suo alito è venefico, come può constatare Mark aprendo un condotto; muove le serrature delle Sue porte decidendo di chiuderle o aprirle a Suo piacere costringendo Elise ad andare dove la aspetterà il suo carnefice; ferisce la mano di Rose con il pomello di vetro di una Sua porta; ascolta i dialoghi tra Elise e Mark attraverso le “orecchie” delle tubature…), visto che a questo punto sarà lei a dover “cadere” crollando tra le fiamme che circondano la Morte. In tutto il film c’è quindi questo concetto del basso, dall’andare sotto, anche perché sotto ci sono i gatti che mangiano i topi, le lucertole che mangiano le farfalle, e le pergamene che svelano alcuni misteri: “La terza chiave è sotto la suola delle tue scarpe” recita il testo dell’alchimista Varelli (Mark dovrà scendere nei sotterranei per scoprire il segreto della Casa). Come a voler dire che in fin dei conti l’ Inferno è sotto e chi ci va non torna più su.

Argento ci traghetta quindi verso un mondo occulto, alchemico. Un mondo fatto di biblioteche, di segreti sussurrati tra le volte di antiche dimore, in un classicismo quasi ottocentesco sottolineato anche per mezzo delle musiche classicheggianti di Keith Emerson che contribuiscono all’atmosfera magica del film. Infatti Argento decide di sospendere la collaborazione con gli echi rock progressive dei Goblin per una partitura più orchestrale, adatta per un film che richiama alla mente anche le atmosfere di sogno e d’incubo create da Lovecraft. Un film misterioso, che cosparge la trama di enigmi, molti dei quali non vengono risolti. Di chi è la mano che nutre con tanto amore i gatti della Casa? Perché Carol, all’apparire di Mark, nasconde repentina la carne che sarà cucinata di lì a poco? Di chi sono le voci (e a chi si rivolgono) delle ombre che sussurrano all’arrivo nel palazzo di Rose scampata all’agguato nella stanza sommersa? Chi sono le persone che penetrano nella stanza di Rose dopo che lei è fuggita e ne raccolgono il frammento di vetro del pomello rotto? Chi ha cercato di sfondare il pavimento di un’altra stanza prima che lo facesse Mark nella stanza giusta? Domande senza risposta.

Un film costellato di simbolismi, anche nelle architetture e scenografie. Emblematica la scelta di girare alcune sequenze, quelle della visita di Sara in una biblioteca, nel quartiere Coppedè di Roma, quartiere visionario per concezione e dalla forte atmosfera esoterica, creata da un tripudio di particolari scultorei e pittorici che invadono ogni angolo dei palazzi che lo compongono.

Misteri della pellicola sottolineati dalle luci innaturali, che richiamano alla memorie le coloriture di Suspiria, ma che isolano i personaggi in zone di pericolo, come se fossero dei segnali d’allarme, più per lo spettatore che per il personaggio.

Misteri che non devono essere sciolti per capire, anche perché chi ci prova rimane stritolato dal Male immanente e illogico che circonda la vicenda. Ma lo spettatore rimane comunque appagato dallo scioglimento della vicenda: in fondo il Male è sempre uno, ed ha un unico, scarno volto. Argento squarcia lo schermo del cinema, metaforicamente simboleggiato dall’immagine di Sara, il cui corpo morente strappa lo schermo di tela di una porta, cadendo verso lo spettatore, riversando sul pubblico i suoi orrori ultraterreni.

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