di Laura Pozzi
Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1992, Un cuore in inverno rappresenta una seconda meritata giovinezza (intensamente vissuta anche nel successivo e splendido Nelly e Mr. Arnaud) nella variegata e sempre pregevole filmografia di Claude Sautet, un autore atipico, controcorrente dotato di una lucida e ostinata consapevolezza nel voler sottrarre la sua visione cinematografica a qualsiasi strumentazione politica o corrente rivoluzionaria. Dopo aver lavorato come assistente alla regia per Jaques Becker e Georges Franju, Sautet esordisce dietro la macchina da presa nel 1960 con ‘Asfalto che scotta’, un’opera spiazzante, sorprendente considerata giustamente tra i migliori noir francesi di sempre.
Pur non tradendo una spiccata predilezione per il cinema hollywoodiano classico, Sautet si terrà sempre coraggiosamente alla larga dai suoi colleghi della Nouvelle Vague rischiando un isolamento artistico fortemente caldeggiato da una certa critica francese. Dopo aver realizzato pellicole di notevole spessore e raffinata sensibilità come L’amante (1970), Il commissario Pelissier (1971), E’ simpatico, ma gli romperei il muso (1972)-solo per citarne alcune, ma tutte le sue opere rappresentano una tappa obbligata per qualsiasi amante della settima arte- Sautet vive un periodo di black out artistico, felicemente risolto grazie all’incontro con Jacques Fieschi, lo sceneggiatore che sarà al suo fianco nella stesura dei suoi ultimi film. Tra questi ‘Un cuore in inverno’, piccolo saggio sulla difficoltà del vivere moderno, sul lasciar fluire le emozioni e sul dar voce ai propri sentimenti.
Al centro della storia il più classico dei triangoli amorosi: due amici (o presunti tali) Stéphane (Daniel Auteuil) liutaio dalle mani d’oro, Maxime (André Dussollier) suo datore di lavoro e Camille (Emmanuelle Béart) violinista talentuosa e nuova compagna di quest’ultimo. Sautet costruisce una storia, per certi versi risaputa, operando delle piccole, ma incisive variazioni narrative capaci di stravolgere uno script apparentemente tradizionale e tramutandolo in qualcosa di assolutamente personale e imprevedibile. La superba sequenza iniziale, dove Stephane è impegnato in religioso silenzio a riparare un violino insieme a Maxime, sottolinea la riservata genialità di un autore spesso e a torto non considerato tale. In pochi minuti il regista francese, delinea con affilata precisione i suoi personaggi avvalendosi della voce fuori campo di Stéphane, che prendendo le distanze da se stesso, lascia la ribalta al più spensierato e disinibito Maxime, uomo che sa prendere la vita per il verso giusto, non ponendosi troppe domande, lasciando che le cose semplicemente accadano.
Come l’incontro con l’algida e sulle prime altezzosa Camille inspiegabilmente attratta da Stéphane e dal suo modo cinicamente coinvolgente di congelare qualsiasi emozione negando l’esistenza di qualsiasi sentimento. Sautet trasforma il disagio di un uomo emotivamente “ibernato” in un’arma letale, capace di neutralizzare e spogliare Camille del suo ruolo di femme fatale per destinarlo a un personaggio incomprensibile, impenetrabile sempre puntuale nell’ avvalorare le proprie convinzioni. Uno sprezzante e gelido burattinaio che la sofisticata e credibile penna di Sautet sa rendere improvvisamente umano, attraverso una messa in scena sobria, misurata, rispettosa dove ogni personaggio anche il più secondario viene tratteggiato con il massimo rigore.
Un cinema sussurrato, mai urlato, dotato di una grazia ed eleganza straordinarie anche nei momenti di massima tensione, come nella struggente e disperata scenata al bar di Camille o nella pudica confessione a Maxime dei suoi sentimenti verso Stéphane. La ricercatezza formale, supportata da dialoghi pungenti cesellati al millimetro e dalle sublimi note di Ravel fanno di ‘Un cuore in inverno’ un piccolo e indimenticabile cult. Senza dimenticare un trio d’attori perfetto, unico, irripetibile.
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