di Girolamo Di Noto
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 2002, Oasis, del regista sudcoreano Lee Chang-dong, si rivelò a suo tempo, uno dei film più belli ed applauditi del Festival, ottenendo meritatamente due premi prestigiosi: Miglior Regia e Premio Mastroianni alla migliore attrice esordiente, la strepitosa Moon So-ri.
A sorprendere e a lasciare incantato lo spettatore è stato il coraggio che ha avuto il regista nel costruire un film di grande impatto, audace nell’aver saputo trattare il tema dell’ handicap senza mai scivolare in facili pietismi e moralismi, soprattutto quando ha mostrato senza falsi pudori una scena di sesso con protagonista una disabile.
Il tema dell’handicap nel cinema è sempre stato preso in considerazione (basti pensare, tanto per citarne qualcuno, al premiatissimo Rain Man o a L’ottavo giorno con Daniel Auteuil o al nostro Le chiavi di casa di Amelio), ma nessuna opera è riuscita a coinvolgere e a far riflettere e a commuovere di Oasis, un film che riesce ad abbracciare realismo e lirismo, durezza e dolcezza, spietato e sprezzante nei confronti di una società che relega ai margini le persone meno fortunate, amorevole e tollerante verso i due protagonisti.
È un film che narra la storia d’amore tra un disadattato di nome Jong-du e una ragazza paraplegica, Gong-yu. Jong-du per salvare la vita familiare del fratello che ha commesso un omicidio investendo un passante, si addossa la colpa e passa due anni e mezzo in galera. Quando ritornerà ad essere libero, decide di andare a fare visita alla famiglia dell’ uomo morto nell’incidente. Scopre che l’uomo ha lasciato una figlia paraplegica, che vive da sola in un misero appartamento. Si conoscono e inizialmente, preso da un raptus, lui cerca di violentarla. Eppure, dopo questo gesto ingiustificato e ingiustificabile , qualcosa sboccia tra i due: lei finalmente è trattata come una persona normale, ha trovato qualcuno che riesce a comprenderla; lui la circonda di attenzioni e premure, portandola in giro con la carrozzella nei giardini, nei ristoranti, a costo di inimicarsi la gente comune, mal avvezza a sopportare la presenza dei disabili. Insieme si sentono felici, sognano ad occhi aperti, ma la realtà sarà diversa. Un giorno i due amanti vengono sorpresi a letto e lui viene arrestato per abuso e stupro. Invano Gong-hu cerca di difenderlo. Nessuno riesce ad ascoltarla.
Incanto e indignazione accompagnano lo spettatore nella visione di questo bellissimo film.
La famiglia (che dovrebbe essere un’istituzione affettiva e protettiva) qui è rappresentata per metterne in luce la disgregazione. I familiari di Gong-hu sono avidi e meschini: si servono dell’handicap di lei per usufruire di un’agevolazione legislativa che permetta loro di abitare in appartamenti più grandi- mentre la ragazza viene relegata in uno squallido appartamento- e in più mostrano tutta la loro facciata irreprensibile e miserevole ipocrisia portandosela in casa solo quando devono incontrare gli assistenti sociali. La famiglia di Jong-du lo sfrutta quando ne ha bisogno, ma poi è incapace di accettare davvero in seno a sé un ex galeotto svitato, di certo un ingenuo e un adolescente mai cresciuto, fragile, ma pur sempre di buon cuore e altruista, bisognoso di contatto e affetto. Di fronte alla crudeltà e alla mancanza di cuore delle loro famiglie, i due protagonisti reagiscono – seppur in modo diverso – con sfida e ribellione ed è in questo contesto che emerge l’incanto poiché il regista sa descrivere questi momenti con lirismo e dolcezza. Significativi sono in tal senso gli spezzoni onirici di Gong-hu, in particolare quelli che mostrano la ragazza quando si alza dalla carrozzella e finalmente può vivere l’amore in totale libertà, camminare fianco a fianco con il suo uomo, oppure quando si estraniano dalla realtà chiamandosi “Generale”, “Vostra Altezza”, oppure quando la donna si crea un proprio mondo immaginando miriadi di farfalle nel fascio di luce che riflette con lo specchio.
Solitudine, abbandono, amore impossibile, destino avverso sono tematiche dominanti dalle storie che narra Lee Chang-dong. L’interesse per il sociale è sempre stato un aspetto pregnante della vita del regista: basti pensare che, prima ancora di approdare al cinema, la sua carriera l’ha visto impegnato come scrittore, novellista e subito dopo l’uscita di Oasis, anche come Ministro della Cultura. Non va trascurata in questo film la scelta dell’ambientazione che ha un ruolo fondamentale per Lee. Lo spazio che circonda i due protagonisti è la periferia con i suoi edifici in costruzione: mancano spazi verdi, le strade sembrano spoglie e desolate come le vite di Gong-hu e Jong-du. Due solitudini che si incontrano, due intrusi della società che il regista descrive senza nessun tipo di commiserazione, ma semplicemente per quel che sono, ovvero due persone che provano attrazione l’uno verso l’altra e, nel caso specifico del rapporto sessuale, due corpi in preda di un bisogno fisico.
L’oasi del titolo rimanda ad un arazzo che la donna tiene appeso alla parete e che la notte diventa pauroso a causa delle ombre dei rami dell’albero che ha di fronte alla finestra. Prima di essere arrestato ingiustamente, Jong-du proverà a tagliare quei rami, cercherà di eliminare quelle ombre. Gesto disperato d’amore, un amore impossibile, carico di dolore e di desideri, raccontato con sensibilità da un regista che, qualche anno più tardi, nel 2010, si ripeterà in un altro film toccante, in un’altra storia di umanità: l’indimenticabile e imperdibile Poetry.
Ma che splendore… sono riuscita a trovarlo, perciò lo metto subito in watchlist.
Grazie.
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