Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani

di Laura Pozzi

Ospite d’onore all’ultima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, Liliana Cavani, classe 1933 ha presentato al pubblico la versione restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale della sua opera più celebre e discussa: Il Portiere di Notte. Girato nel 1974 e scritto insieme a Italo Moscati il film più controverso della regista emiliana, (nato sulla scia di un documentario girato per la Rai sulle donne della Resistenza) si caratterizza ancora oggi  per la sua eccezionale modernità e per quel mancato senso di appartenenza a qualsiasi genere cinematografico. Una pellicola aperta a molteplici chiavi di lettura, bollata in Italia come scandalosa e ideologicamente sconveniente solo per la spregiudicatezza di mettere in scena le nevrosi e pulsioni ossessive di un ex gerarca nazista, un simbolo del male, un cattivo a tutto tondo. Un azzardo imperdonabile costantemente tallonato dalla censura e mal tollerato da un paese bacchettone e benpensante. Ma tralasciando lo squallido bigottismo nostrano il film uscito in tutto il mondo godrà di una fortuna inaspettata lanciando definitivamente la carriera della Cavani e piazzandosi tra i film più  visti di sempre.

La vicenda si svolge a Vienna nel 1957, città dai contorni espressionisti profondamente segnata da un conflitto lacerante distante solo cronologicamente,  ma ancora nitido e vibrante nella mente di Maximilian, un ex ufficiale nazista in attesa di processo che ha scelto di esorcizzare le funeste ombre del passato vivendo come una talpa, rifuggendo la luce del giorno per svolgere la mansione di portiere di notte nell’Hotel der Oper. Una sera tra i vari ospiti della struttura scorge l’esile figura di Lucia una ex deportata ebrea, ora moglie di un direttore d’orchestra con la quale aveva vissuto durante gli anni di prigionia una perversa e torbida passione. Una passione, o meglio una follia a due nata all’interno del lager alimentata da soprusi e umiliazioni, ma resa plausibile da un inesplicabile complicità. Lucia faccia d’angelo e occhi di ghiaccio è la sua vittima designata, la sua bambina (come ama apostrofarla), sulla quale può commettere e al tempo stesso espiare i suoi crimini. Il nuovo fatale incontro sottolineato da confusione e turbamento, suggella nuovamente quel legame innaturale impossibile da cancellare, ma ancora incredibilmente possibile da ricreare.

La Cavani affronta il doloroso tema dell’Olocausto da una prospettiva inedita (e per questo osteggiata): quella della psicanalisi. Nonostante la storia non possa sottrarsi ad un inevitabile confronto con la realtà e in questo senso appare illuminante la scelta di narrare parallelamente la preparazione volutamente “priva di testimoni” del processo con le strategie di sopravvivenza messe in atto dagli altri ex nazisti coinquilini dell’albergo, la regista realizza un melodramma raggelato, un thriller dell’anima traendo ispirazione da due maestri: Luchino Visconti e Bernardo Bertolucci. Dal primo oltre ai magnetici e indimenticabili Dirk Bogarde e Charlotte Rampling riprende le atmosfere lugubri e decadenti de La caduta degli dei (1969), mentre con Bertolucci opera una sorta di rielaborazione di Ultimo tango a Parigi, uscito due anni prima. L’esilio volontario, ma in parte forzato tra le quattro gelide mura di un anonimo appartamento, oltre a ricreare l’opprimente clima del lager consente ai due amanti maledetti di concedere una seconda possibilità al loro passato, incapace di sopravvivere al di fuori di esso. Max e Lucia sono due animali in gabbia, due esseri braccati dalla Storia, prigionieri di una realtà raccapricciante dove la ragione umana ha perso ogni valenza oggettiva a vantaggio di un’irrazionalità delirante. Il loro rapportarsi è essenzialmente fisico, scarno di parole, contrassegnato da un continuo ribaltamento di ruoli, destinato inevitabilmente ad autodistruggersi. Dietro ogni azione si cela un quantitativo inestimabile di dolore, terrore, colpevolezza, aberrazione Non si guarisce dall’orrore e questo vale per entrambi, perché una volta varcata la porta dell’inferno difficilmente si torna indietro.

Nonostante l’accurata e sontuosa messa in scena la Cavani predilige una narrazione asciutta, quasi chirurgica costellata da numerosi e preziosi flashback volti a rievocare il tragico passato dei due amanti. Fra questi l’indimenticabile sequenza in cui Lucia, moderna Salomè, vestita solo di pantaloni e bretelle seduce sulle note di “Wenn Ich mir was wunschen dürfte” gli ufficiali nazisti attraverso una danza ardita e provocatoria. Per Charlotte Rampling il ruolo della vita, capace di trasformarla in icona indiscussa, per Dirk Bogarde una performance a fior di pelle, padroneggiata in modo impeccabile. Due memorabili interpretazioni ancorate ad un racconto ancora dannatamente attuale, perché come dichiara Max ad una sua confidente qui non siamo in presenza di una storia romantica, ma di una storia biblica.

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