di Andrea Lilli
Se è vero che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” [Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo], il grado di barbarie di una prigione si misura dal ghigno feroce del suo direttore, in questo caso Ranken (John P. Ryan), responsabile del carcere di massima sicurezza di Stonehaven, Alaska. Uno che si crede inferiore solo a Dio, e che in camicia rosa e cravatta celeste – senza alcuna pietà – dichiara in TV di considerare “animali” i detenuti, dimostra di essere peggio di una bestia, così come definita da Shakespeare nel Riccardo III (citazione che in effetti appare a 30 secondi dalla fine del film), in una società rimasta tristemente ancorata alla ‘legge del più forte’. A proposito: il grado di rispetto per un film di qualità si misura dal modo in cui si traduce il titolo, se proprio non si vuole lasciare l’originale, che qui è semplice e perfetto: Runaway Train.
È il secondo lungometraggio americano del regista russo Andrej Konchalovskij, emigrato negli USA su invito di Jon Voight dopo la censura sovietica al kolossal Siberiade (1978, premiato a Cannes ’79). Runaway Train è un action movie tostissimo, uno dei maggiori classici nel genere Fuga e Inseguimento Evasi. La sua originalità sta nel non cedere ai soliti stereotipi di tale categoria, mentre rappresenta con crudo realismo prima le brutalità della disciplina penitenziaria, poi il prezzo della libertà: il ghiaccio e la neve, i clangori e i gemiti meccanici, le sofferenze fisiche, la speranza, l’angoscia. Americano nel ritmo serrato ma profondamente russo nell’anima, solleva adrenalina e riflessioni in un crescendo di suspense che porta ad un finale indimenticabile.
Si basa su un soggetto di Akira Kurosawa elaborato da tre sceneggiatori fra cui l’ex criminale Edward Bunker, scrittore (Come una bestia feroce) e attore, che qui recita se stesso carcerato nei panni di Jonah, figura secondaria ma significativa. È stato Eddie Bunker, ex ospite di San Quintino, ad istruire Jon Voight (Manny) ed Eric Roberts (Buck) su come parlano e gesticolano i detenuti di lungo corso; a spiegare al regista come ricostruire il clima infernale di una prigione speciale; a far immaginare quanto immenso possa essere il rancore di un carcerato per l’esclusione dal mondo ‘libero’.
Ranken e Manny hanno un conto aperto tra loro. Si odiano, ma sono simili nell’ipertrofia dell’ego, entrambi intolleranti al dialogo e alla pietà. E siccome la Norma (Ranken) è ancora più spietata della Devianza (Manny), l’odio reciproco diventa viscerale, una passione cieca condivisa. L’ergastolano Manny è l’eroe dei prigionieri (pena media: 22 anni), evaso già due volte dalla fortezza di Ranken, che lo ha rinchiuso in cella d’isolamento. Dopo tre anni di buio alienante Manny viene fatto riportare da un giudice nella sua cella ordinaria del fine pena mai. “Ciò che non mi ammazza mi rende forte”: riparte la sfida tra i due. Un sicario di Ranken non riesce ad ucciderlo, solo a ferirne gravemente una mano, mentre assiste a un incontro di boxe vinto da Buck. Come Jon Voight si identifica completamente in Manny, così Eric Roberts stupisce nell’adesione al ruolo di Buck, ragazzo immaturo, nevrotico, dai pugni facili ma di fragile carattere, condannato per stupro di una minorenne, intimidito da Manny, che per lui è un mito eroico, un modello.
Manny lo ignorerebbe completamente, se Buck non fosse l’addetto al trasporto in lavanderia della biancheria sporca. I due evadono. La temperatura polare li costringe a non fermarsi fino a quando non saliranno disperati su un treno formato da quattro vecchi locomotori. Sono passati trenta minuti dall’inizio del film. Il resto si svolgerà dentro e intorno a questo drago di ferro e fuoco lanciato verso la libertà – o la resa -, che mostra subito una certa tendenza a muoversi autonomamente, ad avere una vita propria. Appena lo mette in moto, il macchinista muore d’infarto e il treno accelera ingovernabile, su un binario imprevisto, all’insaputa dei due evasi. Le centrali di sorveglianza lanciano l’allarme, seguendo il convoglio impazzito ne decidono le sorti dapprima senza sapere chi stia a bordo.
Nuovamente intrappolati, stavolta proprio dal mezzo che doveva liberarli, Manny e Buck si confrontano. Buck viene allontanato da Manny, che ormai lo considera una lamentosa palla al piede. “Non capisci niente, stare attaccato a me è da stupidi. Io sono in guerra col mondo, nessuno escluso”. Emergono le diverse prospettive, in dialoghi-sfoghi che sembrano scritti da Cechov, e per i quali Voight si è ben meritato il Golden Globe. Buck: “Farò un gran colpo. Una grossa rapina, e poi me la godo. Sai, ho passato quasi ogni notte della mia vita a sognare di fare quello che voglio.”
Manny: “Sognare… Stronzate. Non farai niente. Ti troverai un lavoro, ecco quello che farai. Uno di quei lavori che possiamo fare noi. Passerai le giornate a lavare tazzine in un bar, o a pulire i cessi. E ti aggrapperai a quel lavoro come se fosse oro. Perché è oro. Questo devi imparare. E quando arriverà il tuo padrone, a vedere come hai lavorato, tu non lo guarderai negli occhi. Guarderai per terra, per reprimere la rabbia che ti salirà al cervello, quando ti dirà di pulire l’ultima macchiolina. E tu la pulirai. E il venerdì ritirerai la tua busta paga. Se tu ci riuscissi… Potresti diventare il presidente di una banca, o quel che vuoi, se riesci a farlo. Magari ci riuscissi io.”
Buck è refrattario a queste morali, frastornato dalla saggezza del suo eroe. Il viaggio nel treno lanciato a tutta velocità e fuori controllo per lui diventa un incubo. A renderlo più sopportabile arriva Sara (Rebecca De Mornay): un’operaia delle ferrovie rimasta finora nascosta, dormiva su quel treno disgraziato quando è partito. La sua presenza serve a riequilibrare il rapporto sbilanciato tra i due evasi, facendo da specchio. Nel frattempo i tre vengono identificati, seguiti sia dalla centrale di controllo che dall’elicottero dell’inferocito Ranken (“Dio, fai che non muoiano. Li voglio uccidere io.”).
Il treno è ormai diventato una creatura acefala e autonoma, tutt’uno con un Manny esaltato dalla sete di vendetta contro Ranken. Si è trasformato in una Moby Dick imprendibile, stravolta da una corsa sfrenata contro ogni tipo di intralcio alla sua Libertà Assoluta. Un’enorme bestia cieca, per quanto meno temibile dei piccoli mostri umani. I tecnici della centrale, per evitare la catastrofe dell’impatto con un deposito chimico, sono costretti a scegliere il male minore: un binario morto, dove il mostro dovrà deragliare a costo di sacrificare i tre passeggeri. Nello stesso tempo Ranken cederà all’istinto di uccidere Manny con le proprie mani. Per l’ergastolano sarà l’ultima occasione per riscattare – stavolta davvero eroicamente – una vita passata a combattere il mondo da solo. Anche nel finale nobile e solenne, accompagnato dall’Et in terra pax hominibus di Vivaldi, l’americanizzato Konchalowsky resta irriducibilmente russo.