di Roberta Lamonica
In California ci sono due bambini biondi, Mike e Debbie (una piccola Elle Fanning), che si rincorrono tra giochi colorati, in una casa confortevole, illuminata da luce soffusa, coccolati da una tata messicana, Amelia (Adriana Barraza), che li accudisce con amore e dedizione mentre i loro genitori (Brad Pitt e Cate Blanchett) sono in Marocco per un viaggio che dovrebbe attenuare il dolore per una tragica perdita. La tata rimbocca loro le coperte e infonde serenità e cura.
In Marocco, invece, ci sono due bambini, Ahmed e Yussef, che giocano con fucili veri, ricevuti in dono in cambio di una capra, che provano a sparare agli sciacalli che potrebbero assalire il loro gregge; bambini che guardano la loro sorella mentre si spoglia da un buco nel muro della loro casa, che sono amati di un amore asciutto e arso come le montagne dell’Atlante marocchino in cui si muovono saltando e arrampicandosi tra le rocce di un paesaggio brullo e inospitale, in modo non dissimile dalle capre che portano a pascolare.
Intanto, in Giappone, un’adolescente sordomuta, figlia di un ricco uomo d’affari, cacciatore per diletto e professionista molto impegnato, vive in una condizione di isolamento emotivo e solitudine agghiacciante la sua ‘età più bella’, incapace di dare voce alla tragedia di cui è stata testimone, piccolo e delicato fantasma in una città brulicante di luci, di vita e di enormi grattacieli, Torri di Babele che non hanno suoni né parole, per lei. Una Babele di incomprensioni, di incomunicabilità, di idiomi, di razze, di luoghi. Quattro storie e un unico punto di convergenza: il dolore e la sua inesprimibilità.
Premio per la miglior regia al Festival di Cannes e Oscar per la migliore colonna sonora a Gustavo Santaolalla, Alejandro González Iñárritu – cineasta visionario e coltissimo – e il fedele sceneggiatore Guillermo Arriago (sceneggiatore fra l’altro de Le tre sepolture, di Tommy Lee Jones) costruiscono, dopo Amores perros e 21 grammi, l’ultimo capitolo di una trilogia in cui il caso, la morte e il dolore investono come uno tsunami le vite di persone che, nel caso di questo film, vivono in angoli lontani del mondo e i cui destini si incrociano per il caso, per un gioco, per un colpo di arma da fuoco.
Iñárritu manipola il tempo, lo spazio e l’azione in un racconto circolare, al cui interno si snodano, in modo apparentemente autonomo, quattro storie che inesorabilmente sono destinate a toccarsi. E nonostante l’asincronia temporale e le coincidenze del caso tanto care a Iñárritu, qui siano a tratti forzate e quasi artificiose (la vicenda giapponese è legata a quella marocchina in modo onestamente un po’ ‘tirato’), il film resta un tassello essenziale nella filmografia del cineasta messicano. La fotografia magnifica di Rodrigo Prieto (I segreti di Brokeback Mountain, Alexander, La 25a ora) sottolinea i colori della sofferenza, definiti ora dalle livide e psichedeliche luci della notte metropolitana, ora dall’ipersaturazione del deserto messicano assolato, ora dall’ocra senza ombre e sfumature dei monti magrebini.
Il montaggio a strappi rende in modo drammaticamente reale il senso della mancanza di ordine nel flusso della vita, del capriccio del destino; e la macchina da presa a mano, traballante e incerta, segue come un’ombra la vita di persone diverse e lontane tra loro ma accomunate da un comune senso di annientamento, spaesamento, smarrimento e precarietà.
La tata messicana che vive per la famiglia americana non è più ‘parte della famiglia’ di una governante di vittoriana memoria; una figura ‘nel mezzo’, tra l’America del sogno e quella dell’invisibilità. Quella che costruisce muri con i pregiudizi, prima che con i mattoni, quella che non ascolta e non perdona. Quella che dà ad Amelia l’illusione di esserci, salvo poi non riconoscerle il diritto di partecipare al matrimonio del figlio. E allora è ‘costretta’ ad andarci di nascosto, a portare con sé quei bambini che tanto ama e che saranno la causa della sua rovina; a vagare nel deserto, senza punti di riferimento, tradita anche dalla sua terra, il Messico, che dietro la veste delle vecchie tradizioni è profondamente cambiato, nevrotico e instabile (ben rappresentato da Gael García Amaral); sfinita sotto il sole cocente, che è lì a ricordarle che è un miraggio, che non esiste.
Oppure la ragazza disabile Chieko (Rinko Kikuchi, nomination all’Oscar 2007 come miglior attrice non protagonista), in una grossa metropoli asiatica non molto diversa dal deserto messicano in cui Amelia si perde, che vaga tra locali alla moda e parchi affollati; alla ricerca disperata di quell’uomo in cui intravedere le fattezze di un padre, troppo chiuso nel suo dolore per ‘vederla’. E allora deve spogliarsi, letteralmente, mostrarsi nuda in tutta la sua fragilità a ricordargli che la mamma l’ha trovata lei, su quel pavimento… Lei che non può piangere e non può gridare perché intorno a lei c’è solo silenzio, un silenzio orribile e doloroso, tanto doloroso.
E il dolore, ancora, è la cifra del rapporto in crisi della coppia americana in Marocco che ha perso un figlio e che non ha saputo unirsi nella tragedia. E la tragedia non potrà essere superata se non attraverso la paura della morte, la casualità della morte, il mistero della morte.
Ed è solo dove ci si può sciogliere in un abbraccio che vale più del “bla bla bla del chiacchiericcio e del rumore sepolti dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo”, che c’è la speranza di poter affrontare la fatica di vivere. Nella madre espulsa dagli Stati Uniti che in Messico riabbraccia il suo vero figlio, nella coppia passata attraverso l’inferno dell’incomunicabilità e del lutto, persa nella traduzione in un luogo lontano da casa eppure stupiti e riuniti nell’amore anche grazie alla semplice umanità di popoli antichi.
Gli unici per cui non c’è redenzione sono proprio coloro a cui la vita ha già tolto tutto, secondo gli standard dei paesi globalizzati. E nel ricordo di braccia aperte nel vento come aquiloni, il loro cuore smette di battere e diventa duro come la roccia dei monti marocchini a cui appartengono e a cui si tengono stretti in un abbraccio di lacrime e morte.
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È un complimento, vero?☺️☺️
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Uscire da tutti i canali social ha comportato anche perdere di vista persone luminose.
Così si vanno a cercare nei luoghi virtuali dove la loro passione le rende più limpide.
Buon ritorno alla normalità, scolastica e cinematografica. ☺
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Claudio! Ben (ri)trovato! Che bello! Grazie🙏🙏🙏☺️☺️
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“Ed è solo dove ci si può sciogliere in un abbraccio”…ok, se ti fischiavano le orecchie, ero io. 🙂
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