Hannah Arendt, di Margarethe von Trotta (2013)

di Bruno Ciccaglione

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Un’altra donna scandalosa, ancor più scandalosa perché donna, ancora oggi scandalosa per l’irriducibilità del suo pensiero alle rigide classificazioni che hanno dominato il ventesimo secolo, infine scandalosa per l’ostinazione ed il coraggio con cui ha cercato di capire (“Ich will verstehen”, ripete varie volte in una celebre intervista televisiva a Zur Person) che cosa fosse stato il buco nero in cui erano precipitate la Germania e l’Europa. Questo e molto ancora è stata Hannah Arendt, cui Margarethe von Trotta dedica il suo film di maggior successo nel 2013, dopo aver dato a molte figure femminili il ruolo centrale nel suo cinema.

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È possibile fare un film sul pensiero? Questo il dilemma che von Trotta deve porsi di fronte alla pensatrice che aveva scosso il mondo col suo libro Le origini del totalitarismo (1951), non mettendo sullo stesso piano ma denunciando i tratti comuni tra nazismo e stalinismo – pur occupandosi prevalentemente del nazismo – e che con The human condition (Vita Activa, nella edizione italiana, pubblicato nel 1958) aveva indicato nella “natalità” – col suo carico di potenzialità tutte da realizzare – l’elemento chiave della condizione umana (non a caso l’opposto che per Heidegger, suo ex professore e amante, per il quale è la “mortalità” a definire tale condizione umana). E poi, naturalmente, c’era stato lo scandalo più grande, quello che per semplificare viene indicato come la “banalità del male” e che riguarda tante cose diverse insieme, ma soprattutto il giudizio su Eichmann, che Arendt ritiene il prototipo dell’uomo “senza pensiero”. Dunque il dilemma di von Trotta era sulla capacità del cinema di riuscire a mettere in scena la profondità delle riflessioni di Arendt senza realizzare un’opera pesante e di difficile comprensione per il pubblico. A film finito, possiamo dire che l’essersi posta questo problema, per cui ha a lungo titubato prima di decidere di fare il film, l’ha aiutata a realizzare un film che riesce ad appassionare senza semplificare troppo.

Margarethe von Trotta e Barbara Sukowa

Molti anni dopo Rosa Luxemburg (1986), Margarethe von Trotta sceglie ancora una volta Barbara Sukowa come protagonista di un suo film, stavolta per interpretare Hannah Arendt. Quasi a chiudere un cerchio, dopo aver raccontato lo sguardo ancora carico di speranza verso il futuro, che all’inizio del ventesimo secolo aveva animato il pensiero e la vita della rivoluzionaria polacca fino alla sua uccisione, stavolta sceglie lo sguardo disincantato e pungente rivolto all’indietro di Arendt sulla Germania degli anni bui del nazismo. Come anche nel film su Rosa Luxemburg, von Trotta sceglie di non concentrarsi soltanto sul pensiero e sulla dimensione pubblica della protagonista, come se sentisse che proprio il dare rilievo alla dimensione personale, intima e anche sentimentale di queste figure, avrebbe rafforzato e non indebolito la rappresentazione di queste donne pubblicamente così esposte. Il film d’altra parte non esita a mostrare le contraddizioni che animano la protagonista: il rapporto con Heidegger, mai troncato e anzi sempre presente come punto di riferimento; i rapporti di amicizia più profondi travolti nello scontro politico-culturale; il tentativo costante di recuperare perfino le fratture politiche più insanabili su un piano emotivo. Non solo von Trotta evita così di realizzare un santino, ma come già era avvenuto con Rosa Luxemburg vuole proprio sottolineare questa specificità femminile: mentre gli uomini, quando prendono una parte sembrano rapidamente trasformare le proprie posizioni in granitiche e irremovibili certezze e quindi è lo schierarsi che è per loro qualificante, le donne di von Trotta hanno questa sensibilità e generosità umana che non le abbandona neppure nel momento dello scontro più topico. Questo, naturalmente, per quel che riguarda la dimensione privata, ricostruita con un’accurata ricerca tra le lettere private e le testimonianze dirette. Altra cosa è stata poi la dimensione pubblica.

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Hannah Arendt non accetta di rinunciare al proprio pensiero e liquidare come semplicemente mostruoso (cioè disumano) il male. Tra l’altro la questione rappresenta un’interessante evoluzione del pensiero di Arendt. Se nel libro Le origini del totalitarismo aveva parlato a proposito del nazismo e dei suoi orrori di “male radicale”, in una lettera ad un amico che le chiede conto di come possa parlare di “banalità del male” per Eichmann, scriverà di aver cambiato idea: solo il bene può essere radicale, e la banalità del male non lo rende meno devastante. D’altra parte, sempre nella stessa intervista televisiva Arendt chiariva: “Che i nazisti fossero nostri nemici lo sapevamo. Quello che non ci aspettavamo era il comportamento avuto dai nostri amici”.

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Von Trotta sceglie di raccontare il periodo più controverso e difficile della vita di Arendt, quello relativo al processo Eichmann ed alla realizzazione dei reportage per il New Yorker, che poi diventeranno il libro La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme (1963). Riassumere il dibattito qui sarebbe troppo lungo. Ancora oggi le discussioni sono infuocate, il film ne dà ampiamente conto e naturalmente le ha di nuovo portate nell’arena pubblica, scegliendo chiaramente di stare dalla parte della Arendt. Il compito dell’intellettuale o della filosofa (anche se Arendt rifiuta questa etichetta, proprio per un rigetto verso una filosofia che aveva mostrato la sua povertà di fronte al nazismo) è sempre quello di discutere e far discutere. E la prospettiva di Arendt è quella di una persona che è stata una rifugiata apolide per moltissimi anni (si noti che anche Margarethe von Trotta è nata come apolide ed è diventata “tedesca” solo con il primo matrimonio). Arendt, evidentemente, ne aveva avuto abbastanza, in Germania, sia del nazionalismo che della retorica dell’“amore per il proprio popolo”. In una scena che trae il dialogo da alcune lettere al suo amico, che proprio nel momento più aspro della polemica pubblica è in fin di vita in Israele, von Trotta fa dire ad Arendt: “Ma tu mi conosci Kurt: io non ho mai amato un popolo, perché dovrei amare gli ebrei? Io amo solo i miei amici. Questo è l’unico amore di cui io sono capace. Kurt, io voglio bene a te!”. In un’intervista von Trotta sottolinea anche come alcune delle accuse più dure che Arendt dovette affrontare fossero tipicamente sessiste: si sarebbe mai detto, ad un uomo, per criticarne le posizioni, che è “senza cuore”? Molti trovarono inaccettabile anche il tono ironico del libro, che ridicolizzava questo “uomo senza pensiero” che era Eichmann secondo Arendt. Nella bellissima intervista televisiva a “Zur Person” la Arendt non può che arrendersi: come si può rispondere a un’accusa del genere? Non si tratta di un argomento a confutare le sue tesi, “si tratta di un attacco personale a me: non posso farci niente”.

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Un momento del processo ad Adolf Eichmann

Tra le numerose condizioni cui von Trotta aveva deciso di vincolare la realizzazione da parte sua di questo film ve n’erano ancora due. La prima era la disponibilità dei materiali originali del processo Eichmann. Solo mostrando il vero Eichmann, anziché un attore, l’avrebbe mostrato al pubblico di oggi: un uomo che con il suo tedesco sgrammaticato e burocratico sembra ben poco all’altezza della statura luciferina che molti desideravano avesse (memorabile il film Uno specialista – Ritratto di un criminale moderno di Eyal Sivan del 1999, interamente costruito sui filmati originali del processo). La seconda era quella che da un punto di vista cinematografico rappresentava la questione più spinosa e cioè la questione linguistica. Come sappiamo ci sono paesi come la Germania e l’Italia dove si doppia tutto, a volte perdendo irrimediabilmente un elemento centrale del film – come è successo nella versione italiana. In Germania, invece, von Trotta ha ottenuto l’uscita del film nella versione originale e cioè nelle tre lingue: il tedesco, l’inglese e l’ebraico, con i sottotitoli. La possibilità di girare in tre lingue era essenziale per varie ragioni. Gli ebrei tedeschi rifugiati negli Stati Uniti passavano continuamente dal tedesco all’inglese, il loro inglese era molto più povero, i rapporti con gli intellettuali americani erano sempre filtrati da questo problema culturale. Diverse scene del film sono proprio giocate sulle due lingue parlate dai diversi gruppi. Inoltre per Arendt la lingua tedesca era l’unico elemento, raccontava, che le fosse ormai rimasto del suo essere un tempo stata “tedesca”. Dare conto invece del suo cattivo inglese, della fatica che questi intellettuali facevano a confrontarsi su temi complessi in inglese era – oltre che legato al realismo – importante per raccontare lo sradicamento come condizione essenziale di una pensatrice come Arendt.

Margarethe von Trotta vince dunque la sfida, realizzando un film che avrà un successo mondiale e che è un invito, oltre che alla riscoperta del pensiero e delle idee di Hannah Arendt, alla libertà di pensiero, al ragionare con la propria testa, a battersi per le proprie idee, per quanto scomode e discusse esse siano.

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