L’estate di Kikujiro, di Takeshi Kitano (1999 )

di Girolamo Di Noto

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Quando si pensa alla propria infanzia, quando si va indietro nel tempo e si scava nella memoria, emergono, nitide, tra ricordi sbiaditi, alcune fotografie, diapositive che riguardano soprattutto giochi, situazioni divertenti, estati assolate. Restano impressi sorrisi, spensieratezza, ma sappiamo anche che dietro quell’aura gioiosa, non sempre tutto è filato liscio e incomprensioni e delusioni hanno avuto in certi momenti il sopravvento. Se pensiamo all’estate vissuta da Masao, il bambino di 9 anni, protagonista del bellissimo film di Kitano, L’estate di Kikujiro, si delinea da subito quel contrasto che contraddistingue la vita di ciascuno di noi: da un lato le delusioni inevitabili che fanno parte della vita, dall’altro il desiderio di riscattarsi, di cercare un mondo a propria misura in cui realizzarsi e provare ad essere felici.

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Masao è un bimbo che abita a Tokyo con la nonna. Arrivata l’estate e con la scuola finita, i suoi amici partiti per il mare, lui resta solo in città. Dopo aver trovato casualmente dentro un cassetto una foto e l’indirizzo di sua madre, che non ha mai conosciuto, decide di intraprendere un viaggio per andare a incontrarla. Parte da solo, ma poi viene affiancato da Kikujiro, vicino di casa della nonna, un uomo eccentrico, dai modi burberi, un tipo ‘suonato’, che riuscirà, attraverso il gioco, a far superare al bambino le angosce di una verità difficile da accettare.

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Presentato al Festival di Cannes nel 1999, due anni dopo lo splendido Hana-bi, meritatissimo Leone d’oro a Venezia nel 1997, L’estate di Kikujiro ha tutte le carte in regola per essere considerato un film dolce e commovente, delicato e divertente, che sa fondere cinema e poesia in perfetto connubio. Una favola triste e spensierata raccontata come solo i giapponesi sanno fare: poche parole, limpidezza di immagini, inquadrature fisse su volti assorti nella contemplazione del mare, ritmi lenti, sequenze oniriche. Il mondo visto attraverso gli occhi di un bambino ed un adulto eternamente immaturo è raccontato con leggerezza, disincanto, ma anche con uno sguardo triste, consapevole del fatto che il male c’è, è sempre presente, fa parte della vita, tuttavia ci si può anche sforzare di volgere lo sguardo altrove e non incupirsi.

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Se nei film precedenti la violenza faceva parte della visione tragica dell’esistenza ed era mostrata in modo esplicito, qui invece è tenuta a distanza, viene relegata fuori campo: Masao vorrebbe ritrovare la madre, attende con ansia l’attimo in cui potrà finalmente abbracciarla, ma subirà un’amara delusione. Da lontano scorgerà una scena di intimità familiare che gli fa capire che la donna si è ricostruita una nuova vita. Così accadrà anche a Kikujiro quando andrà a visitare la mamma anziana ricoverata in un ospizio: si terrà a debita distanza e quel fermo immagine sul suo volto intento a guardarla racconta più di tante parole, sguardo venato di malinconia, sofferente, disilluso. Sia Masao che Kikujiro sono accomunati dall’assenza materna, smarriti nel mondo, caratterizzati da una solitudine inevitabile.

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Splendida è la ripresa dall’alto del bambino vestito da calciatore mentre cammina su un campo di calcio deserto, toccante è il dialogo che ha con il suo compagno di scuola quando gli chiede cosa farà: “Andrò al paese di mio padre, è bello, è vicino al mare” – “Beato te!”. Nove anni, estate di solitudine, amare delusioni: il colpo è forte, il bambino va consolato. Lungo il percorso, Masao, con due buffe ali applicate sullo zainetto azzurro, viene trascinato dal suo bizzarro compagno nei luoghi più impensati: un velodromo, un hotel lussuoso, sperdute località di campagna, spiagge, senza un’idea precisa, usando mezzi di fortuna, attendendo autobus che non passano da lì da anni. Incontrano personaggi di ogni genere, ai margini della società, buffi, eccentrici come un mimo e un giocoliere, un sedicente poeta-filosofo senza dimora, due motociclisti metallari mammoni e dalla voce tenua che Kikujiro, come sempre burbero con tutti, battezza come il “ciccione e il pelato”. L’ordine è far ridere Masao, distoglierlo per un po’ dalla triste realtà e regalargli un’estate indimenticabile. Così una testa diventa anguria con due strisce di vernice verde, un sentiero nel bosco la pista per una gara, l’uomo magro e pelato un polpo e l’altro paffuto un pesce palla. L’intenzione è quella di regalare un sorriso al bambino. Attraverso gag esilaranti e surreali, Kitano unisce dolcezza, momenti felici, invenzione poetica riscoprendo l’infanzia, in uno spazio dominato dall’acqua, lontano dalla realtà, una tappa di allontanamento temporaneo, ma necessario.

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Senza l’invenzione e la fantasia la vita si irrigidisce, si perde e affonda nel fango del vuoto. Kitano questo lo sa bene, prende in prestito il suo potere immaginativo regalandoci poesia in ogni inquadratura, illusioni momentanee ma fondamentali per alimentare lo stupore e la meraviglia. Il male non viene mostrato, il che non significa che non esiste. L’abbandono dei genitori è un dato di fatto, la solitudine resta, il pervertito che Masao incontra nel parco e che Kikujiro punisce in modo esemplare purtroppo esiste, ma per il momento restano accantonati e al massimo si presentano sotto forma di brutti sogni. Angeli azzurri e demoni rossi sono presenti nell’immaginario di Masao, ma alla fine prevalgono momenti magici e la spiaggia funge da contesto ideale per questa momentanea riappacificazione con il mondo. Se in Sonatine, altro capolavoro di Kitano, la spiaggia dell’isola di Okinawa è un luogo transitorio dove attendere una fine ineluttabile, ne L’estate di Kikujiro la spiaggia racchiude il lato colorato e gioioso della vita, il luogo in cui Masao, dopo aver pianto, prende per mano Kikujiro e lo battezza come suo padre.

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Grazie anche all’apporto della musica di Joe Hisaishi che dona note di atmosfera nostalgica, Kitano realizza un film di grande impatto visivo, si toglie di dosso il ruolo di gangster spietato affiliato alla Yakuza e costruisce un personaggio che non va in nessuna direzione, disilluso, sguardo amaro, ma che di fronte ad un bambino e anche nei confronti di se stesso, deve cercare di sforzarsi di vedere, nonostante tutto, il lato incantato e magico dell’esistenza.

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