di Greta Boschetto
È l’alba, canta un gallo in una campagna desolata. Dalle prima inquadrature si percepisce subito tutto il caldo della Lucania, già delle prime ore del mattino. La voce narrante con cui si apre il film spiega che questa è una storia ispirata a dei fatti di cronaca realmente accaduti, la storia di Purificazione, “una ragazza posseduta dalla magia”.
In una camera povera e disadorna, tra crocifissi e immagini di Santi, Purificazione si buca con uno spillo sopra il seno e si taglia una ciocca di capelli. Esce di casa e va in chiesa, la gente del paese la guarda e ne parla male, recita delle formule. Lei se ne va per incontrare Antonio, il suo amato, ora promesso a un’altra: tra superfici rocciose e roventi di un paesaggio arido poco fuori Matera, l’uomo di cui è innamorata e inizialmente ricambiata ora però la scaccia, si vuole sposare ma non con lei, la teme perché è bella, sì, bellissima, ma troppo passionale, diversa. Meglio una donna meno attraente, che non ha mai avuto amanti, meglio una donna più consona socialmente al ruolo di moglie.
“Purif” ha una bellezza sfregiata e sofferta, nella prima scena in cui compare si gira verso la porta della sua camera da letto con gli occhi terrorizzati, è elegante e naturalmente sofisticata ma circondata da gente rozza e ignorante, che teme il diverso soprattutto se non convenzionale, è una donna che potrebbe essere moderna ma schiacciata da un’umanità che le nega la libertà di vivere e che fa nascere negli altri nevrosi legate soprattutto alla repressione sessuale, in un’Italia da sempre e purtroppo ancora fortemente cattolica e bigotta.
I comportamenti strambi, figli del disagio della protagonista, aumentano con l’incedere del film e per i suoi concittadini tutto diventa chiaro: Purificazione è una “maciara” e deve essere esorcizzata, accettando anche lo stupro e la violenza, fino al tragico finale.
Nella cultura lucana, la “maciara”, è una strega, una fattucchiera, a volte anche una guaritrice ma pur sempre appartenente a forze oscure, e in ambito cinematografico rivedremo di nuovo questa figura quasi dieci anni dopo grazie a Florinda Bolkan in Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci.
Quello che i compaesani di “Purif” scambiano per una possessione demoniaca, non è altro che la disperazione di una ragazza atipica in seguito all’abbandono dell’uomo che ama, un abbandono che genera una disperazione sempre più animalesca, tanto da portare per la prima volta sullo schermo la famosissima “camminata a ragno” rivisitata anni dopo da William Friedkin ne L’esorcista nel 1974 o espressioni folli forse d’ispirazione per altri registi come Andrzej Żulawski in Possession o Ken Russell ne I diavoli.
Brunello Rondi, in un volume sul cinema italiano scritto da Franca Faldini e Goffredo Fofi, ha definito la sua pellicola come “il primo film sull’esplosione irrazionale della coscienza”. Non solo atmosfere demoniache e gotiche quindi, come appare ovvio da subito, ma un perfetto connubio tra lo studio sociale e antropologico e l’horror, un trattato sulla superstizione e sulla religione che si scaglia contro l’ignoranza e le credenze popolari e solleva anche un dibattito sulla sanità mentale e sulle pulsioni della carne repressi in contesti retrogradi (ancora oggi moltissimi, anche se spesso nascosti da una finta modernità).
Un’opera di evocazioni, di scene lente e inquietanti senza l’uso di nessun effetto speciale, accompagnate dall’ipnotica musica di Piero Piccioni, da un bianco e nero curatissimo e raffinato, che come protagonista ha una donna additata come strega, ma in realtà semplice vittima della cattiva sorte e di un ambiente dominato dall’ipocrisia: si possono commettere le peggiori azioni purché lontano dagli occhi della comunità ed è così che individui come il pastore che violenta Purificata o l’uomo che confessa di desiderare sessualmente la propria figlia conservano il proprio “prestigio” sociale, mentre Purificata viene perseguitata perché apertamente eccessiva e nevrotica.
La vicenda ha richiami al sovrannaturale ma il vero orrore è altrove, nella realtà, nel prendere una persona e renderla il capro espiatorio per le disgrazie inspiegabili che costellano le nostre esistenze, alimentando idee che se condivise da molti diventano una certezza indissolubile difficilmente sradicabile, tanto da influenzare anche chi ne è colpito direttamente, accrescendo ancora di più la superstizione.
La parabola del film purtroppo è semplice: spesso per scacciare il male verso il quale tutti puntano il dito viene usato un altro male, di tipo più infido, perché accettato dalla società. Ed è così che a volte gli innocenti diventano mostri.
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