Il silenzio sul mare, di Takeshi Kitano (Giappone/1991)

di Girolamo Di Noto

Se si potesse ipotizzare un’unica inquadratura contenente in nuce la purezza e il candore dello splendido film Il silenzio sul mare di Takeshi Kitano, questa probabilmente andrebbe rintracciata nella sequenza contemplativa che vede i due protagonisti su una spiaggia, di fronte al mare. Lui ha una tavola da surf tra le braccia, lei accanto a lui a seguire i suoi sguardi.

Il mare, elemento ricorrente del cinema di Kitano, che si staglia dinanzi ai loro occhi, come rifugio dell’anima, incanto, sogno. Il terzo film del regista giapponese non contiene violenza, si distacca dal filone yakuza che abbraccia le prime opere e anticipa, grazie ad uno stile semplice ed essenziale che rende sublimi anche le piccole azioni, i successivi capolavori come Sonatine, Hana-bi e L’estate di Kikujiro. È la storia di uno spazzino sordomuto che, dopo aver trovato una tavola da surf rotta, passa l’estate con la sua ragazza, anche lei sordomuta, a imparare quello sport.

Con una trama ridotta all’osso e quasi senza dialoghi, Kitano ha la capacità di raccontare una passione che diventa ossessione, una fuga dalla realtà e soprattutto riesce nell’intento di descrivere emozioni e stati d’animo senza l’apporto delle parole, ma solo attraverso sguardi, inquadrature statiche, silenzi spezzati dal suono riecheggiante delle onde. È un’opera del silenzio ed è nella visione delle immagini, che a tratti sembrano dei veri e propri tableaux vivants, che risiede il senso della vita, la passione, il desiderio del ragazzo nel cercare quel colpo d’ala che libera, che dà linfa alla vita, la sblocca.

Con uno sguardo da bambino, stupito di fronte al mistero, Kitano segue le vicissitudini di Shigeru (Kurodo Maki), un netturbino che vorrebbe evadere da un’asfissiante routine quotidiana e che cerca nel surf quell’equilibrio che gli manca nel suo triste lavoro quotidiano. Il silenzio sul mare è un film sulla ricerca del proprio posto nel mondo.

Shigeru “è un pesce fuor d’acqua ” nel lavoro e pian piano scopre di sentirsi a proprio agio solo quando è in acqua sulla vecchia e rotta tavola da surf. Con un affetto che in altri suoi film è in genere tenuto a distanza, ma evitando di fare appello al patetico, Kitano racconta la storia di un surf che trasforma un ragazzo in un antieroe, che deve fare i conti con le frustrazioni iniziali, i sacrifici economici, i sogni ad occhi aperti: lo segue mentre cammina sulla battigia, si sdraia sulla tavola, cerca di alzarsi e cavalcare l’onda, si ribalta.

Attraverso gli occhi incantati della ragazza (Hiroko Oshima) e quelli stupiti degli altri surfisti che prima lo deridono, poi lo compatiscono, infine si fanno partecipi della sua passione, il regista mostra, con un’intensità e una semplicità che lasciano sconcertati, la scoperta di un’armonia che è dentro la vita, lo sforzo di trovare un equilibrio con se stessi e la natura, il desiderio di un riscatto: l’amore per il surf sembra infondere una voglia di rivalsa verso la monotonia della vita e il mare si inquadra come luogo ideale per elevarsi, come antitesi delle impurità terrene.

Il mare costituirà, come si è detto, una costante di molti film a venire di Kitano. In Sonatine, gli yakuza si rifugiano temporaneamente sull’isola di Okinawa in attesa di conoscere il proprio destino. Nello splendido Hana-bi, Nishi con la moglie Miyuki, malata terminale, al mare, senza parlare, rivedono i bei momenti trascorsi insieme. Il mare è un abisso liquido che addolcisce i drammi della vita, influenza, ipnotizza, lascia incantati, è protagonista di contemplazioni ma è anche luogo in cui ci si perde o ci si affida. Seguendo il ritmo lento delle onde, Kitano, attraverso uno stile scarno ed essenziale che lo avvicina a Ozu e Bresson, mette in scena una limpida meditazione sulla disparità tra vita e esistenza.

Il mare, in tal senso, rappresenta una sorta di confine, una soglia: da una parte c’è uno spazio infelice, l’esistenza, il lavoro ripetitivo, il furgone della spazzatura, i casermoni, le villette anonime tutte uguali tra loro, dall’altra c’è uno spazio smisurato, la vita, simbolo di un vivere sincero, l’oceano sconfinato che ti affascina e ti impaurisce.

I personaggi vivono nei luoghi della soglia e del transitorio: soltanto lunghe camminate collegano gli spazi della soglia al mondo quotidiano ed è su questo confine che si svolge la tenera storia d’amore dei due protagonisti, un amore mai stucchevole, palpabile attraverso i gesti della ragazza: lo fissa per ore sulla tavola da surf, gli piega i vestiti, cancella i suoi errori di ortografia dal modulo di iscrizione per una gara, lo aiuta a reggere la tavola durante le lunghe camminate, lo sostiene senza sosta. Quando Shigeru guarda il mare, Takako guarda con lui, lo guarda attraverso i suoi occhi.

Il silenzio sul mare sa essere anche questo: una storia d’amore senza una sola scena d’amore, un film contemplativo in cui vengono abbandonate per un attimo le atmosfere spietate, opprimenti dei precedenti film, un film che non ha ritmi serrati, ma che attraverso il non detto lascia spazio ad atmosfere di sospensione e di attesa. Le espressioni dei volti rivelano il minimo mutare dei loro sentimenti, l’assenza dei dialoghi conferisce a rumori e suoni un valore assoluto e la musica di Joe Hisaishi, che ricorda molto Satie, è straordinaria ed emozionante, né eccessiva né invadente e impreziosisce la poesia delle immagini che pervade questo film, le varie sfaccettature dell’animo umano, il suono delle onde che i due non possono percepire. Attraverso inquadrature statiche e larghe, Kitano ha il talento di suscitare emozioni vere, esplorando l’indicibile, la grazia e per mezzo della purezza delle immagini dà vita ad una struggente favola di candida bellezza, una narrazione folgorante che sottende una visione amara della vita come ilare avvicinamento alla morte.

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