di Andrea Lilli (*) –

Questo è Pierfrancesco Favino, che fa Alberto, mio zio. Da quando sono nato vivo con lui e Livia, mia zia, la sorella di mia madre, a Roma in Via Persio. Ho imparato a memoria indirizzo e telefono, mi hanno dato pure le chiavi di casa. Qui Alberto è un po’ preoccupato e un po’ incazzato, e si vede, perché mi sta consegnando a Gianni, che ancora non mi ha mai visto in vita sua. Anch’io non ho mai visto Gianni, ma so che è mio padre. Il dottore ha detto ad Alberto che stavolta è meglio che sia Gianni a portarmi a Berlino col treno, nella clinica tedesca dove vado a fare ogni tanto una terapia speciale. Pare che la fanno solo là. Alberto sta dicendo a Gianni, di me: “È una forza ‘sto ragazzino, che manco te l’immagini. Te lo meriti, tu?“. Gianni è Kim Rossi Stuart, un attore che ha il cognome come il mio ma è un caso, e poi a me mi pare di somigliare di più a Pierfrancesco. Gianni mi sembra troppo giovane e sprovveduto per farmi da padre. Un bamboccio cresciuto, insomma. Però il regista Gianni Amelio ha scelto proprio Kim, lo sa lui perché, e gli ha dato perfino il proprio nome. Qualcun altro forse avrebbe scambiato i ruoli tra Kim e Pierfrancesco, ma fa niente, è andata, e va bene così.

Ecco, questo è mio padre Gianni, con me che sono Paolo nel film ma in realtà mi chiamo Andrea Rossi, e questa è la prima volta che faccio l’attore. La cosa buffa dei nomi in questo film, è che ci sono parecchie coincidenze. Per esempio, la dedica iniziale nei titoli di testa è “ad Andrea e ad Andrea“, perché ci chiamiamo così sia io che il figlio dell’autore del romanzo Nati due volte, a cui si è ispirato Gianni il regista. Dunque il film inizia con questo viaggio in treno, dove io e mio padre cominciamo a conoscerci. Lui è un po’ fregnone, sarebbe pure simpatico ma ha un grosso senso di colpa, anzi due enormi, perché mia madre che aveva 19 anni morì durante il parto, e lui che pure era un ragazzo scappò via, senza nemmeno volermi vedere quando seppe che ero nato con danni neuromotori permanenti. Una tragedia greca per lui, forse più che per me, che sono cresciuto con gli zii e ci sto bene, e prima o poi ho imparato a camminare, ora li aiuto per tutti i lavori di casa, e mi hanno dato pure le chiavi, già l’ho detto?, vado a scuola col sostegno, gioco con la Playstation, vedo la tv, ho una ragazza che ancora non ho visto ma mi scrive dalla Norvegia, e tifo Lazio.
Il problema dei rimorsi del mio nuovo papà è che vuole recuperare in questi pochi giorni di viaggio tutto il tempo che non mi ha voluto vedere, e visto che non sono così mostro come lui s’immaginava, non fa altro che abbracciarmi, accarezzarmi, aiutarmi anche quando non ne ho voglia né bisogno. Si appiccica troppo. Devo trattarlo male certe volte, per fargli capire che sono più indipendente di quel che pensa, e ho le mie abitudini. Però devo essere contento di incontrarlo e di stare con lui, dice il regista.

Nell’ospedale berlinese io ritrovo facce conosciute: la terapista, l’infermiere, alcuni pazienti. Tra i quali c’è Nadine, una ragazza francese di vent’anni che non riesce ad esprimersi bene come me, che pure ho parecchi difetti. La capisce solo la madre, Nicole, impersonata da Charlotte Rampling. Devo dire che quest’attrice è proprio brava, stavolta sono d’accordo col regista che l’ha scelta per quel ruolo. È una donna ancora bella ma logora, meno giovane di mio padre Gianni. A differenza di lui ha sempre dovuto occuparsi da sola della figlia, che ha grossi problemi, ancora più pesanti dei miei. Infatti già al loro primo incontro in ospedale lei gli dice: “Strano vedere un uomo qui… Questo è il lavoro sporco che di solito tocca alle madri. I papà non ce la fanno, con una scusa o l’altra si tirano indietro“.
È Nicole che aiuta Gianni a districarsi in una Berlino che lui fatica a capire: primo, per la lingua. Secondo, nel rapporto con i terapisti. Terzo, nel rapporto con se stesso, in quanto genitore di disabile. D’altra parte lui la incontra più volte anche senza cercarla. E che libro legge lei sulla panchina, quando sta da sola? “Nati due volte”, di Giuseppe Pontiggia. “Questo lo deve leggere“, gli dice, “è un libro che ci riguarda“. Gianni però è proprio un pivellino come padre. Prima litiga con la terapista tedesca perché la trova troppo severa, e la interrompe abbracciandomi commosso (uffa…) mentre faccio gli esercizi; e poi, chiacchierando con Nicole e Nadine, si allontana e mi perde di vista quando mi prende la voglia di prendere il tram, e me ne vado. Poi la polizia mi trova e mi riconsegna, ma intanto lui si è preso un colpo, dando pure ragione alla terapista di ferro, che aveva detto “Il vero problema di certi figli non è la malattia, ma i genitori“. Come se non ti fossero bastati i sensi di colpa, povero babbo.

Meno male che c’è Nicole, che a suo modo cerca di tirarlo un po’ su..: “Si preoccupa troppo di Paolo, che si perderà ancora, ma la sua malattia paradossalmente lo proteggerà. Si prepari lei a soffrire, se vuole stargli vicino“. Segue una scena memorabile sulla banchina della metropolitana in cui Charlotte è bravissima, nel far vedere senza esplodere l’immensa sofferenza di una donna che per seguire la figlia ha rinunciato a tutto. “Penso solo alle cose piccole: comprare il dentifricio, il pigiama nuovo. Sono più di vent’anni che ogni minuto penso solo a mia figlia. Certe volte lei mi guarda con occhi disperati, e io dico dentro di me: perché non muore?“.
Io mi domando però se i problemi più pesanti non si possano affrontare lo stesso senza rinunciare a tutto. Per far fronte alle grandi difficoltà di ogni giorno non conviene, a te genitore assistente, e di riflesso pure a me figlio assistito, pensare di più a te stesso? Sacrificarti di meno?

Comunque, a questo punto Gianni decide che Berlino gli sta antipatica, che è ora di scappare in Norvegia, alla faccia della terapia. Tanto l’infermiere della clinica non imparerà mai la formazione della Lazio, anche se continuerò a dirgliela all’infinito nell’orecchio. E poi mi piace l’idea di questo babbo scemotto, di andare a fare una sorpresa a Kristine, la ragazzina con cui scambio lettere e foto. Prendiamo il traghetto e una torta in pasticceria, e mentre attraversiamo i nostri sogni con questa botta di vita, Gianni esagera proprio: getta nel mare il mio bastone! Solo che nella fretta di scappare, ci scordiamo un piccolo particolare: è domenica, e la scuola in cui pensavamo di incontrare Kristine è chiusa… La torta ce la mangiamo noi, in attesa del giorno dopo. Carpe diem, si dice, no?

Riprendiamo la macchina e ce ne andiamo in giro per la Norvegia verde e piena di laghi, di mare e di cielo. Gianni mi dice che vuole che al ritorno in Italia io venga a vivere con lui, anche se ha una moglie e un figlio piccolo. Io sono un po’ diffidente (è sempre così appiccicoso…), mi chiedo, gli chiedo: “È tardi o è presto?“.
Acconsento, ma a una condizione: “A casa tua posso aprire con le mie chiavi?“, gli chiedo. Ride e risponde di sì, ma si vede che non ha capito: canto la mia canzone preferita di Vasco Rossi, e appena mi metto a suonare il clacson come mi pare e piace, e non smetto, Gianni si arrabbia, diventa cupo e ferma la corsa. Scende dall’auto. Esco pure io, lo raggiungo appoggiandomi alla macchina. Mi tocca consolarlo, perché piange disperato. “Su, non piangere, ci sto io qua“, gli dico abbracciandolo. Questi padri fragili…

(*) recensione immaginaria di Andrea Rossi
Ai disabili che lottano
non per diventare normali, ma se stessi
Giuseppe pontiggia

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