di Andrea Lilli –
Palestina, notte della Natività. Una stella cometa guida i Re Magi ma solo fino a un certo punto, non sono stati ancora inventati i navigatori satellitari portatili: la stalla di Gesù viene confusa con quella di un altro neonato, Brian Cohen, alla cui ruvida madre vengono consegnati i previsti oro, incenso e mirra. Appena si accorgono dell’errore i Magi riacciuffano i doni dileguandosi in fretta, però intanto ci hanno presentato il protagonista del Vangelo secondo i Monty Python: un uomo timido, imbranato e molto sfortunato. Brian. Fin dalla nascita, suo malgrado, il suo destino seguirà quello di Gesù.

Dopo questa scena introduttiva, sfilano i titoli di testa nel fantasioso barocco monumental-demenziale creato da Terry Gilliam, che oltre a recitare qui cura le animazioni e gli effetti speciali. È lo stile Monty Python: nelle loro performance ciascun attore recita più ruoli, e spesso e volentieri svolge funzioni parallele: regista, sceneggiatore, compositore, scenografo. Un’energia incredibile alimentata da una fede smisurata, diciamo pure fondamentalista nello Humour, il loro unico dio. Qualcuno disse che se gli inglesi hanno una religione nazionale in cui potersi tutti riconoscere, questa è il senso dell’umorismo. Sense of humour è la capacità di vedere il lato ridicolo delle cose, ciò che di funny c’è sotto la superficie, nell’essenza (umore, humour appunto) di tutti i fenomeni. Di questo culto particolare, nell’ultimo mezzo secolo i Monty Python sono stati senza dubbio i sacerdoti più seguiti, e non solo dai britannici. Sono i valorosi antieroi che nel mondo dello spettacolo – TV, radio, cinema, teatro, musica, videogiochi, etc. – hanno sempre esercitato al massimo grado la libertà di dire quel che pare e piace, in nome del Verbo sacro e anarchico della satira e dell’irriverenza, di un assoluto sbattersene delle convenzioni. Primo comandamento: prendere in giro chi si prende troppo sul serio. Secondo: guarda sempre al lato positivo della vita.

Il primo nucleo Monty Python esordì in radio BBC nel 1964. Prima avevano fatto teatro nelle università: Cleese, Chapman e Idle a Cambridge, Jones e Palin ad Oxford. Si aggiunse in seguito Terry Gilliam, l’unico americano del gruppo. I sei goliardi, tutti laureati, divennero sempre più celebri dal 1969 con una serie TV, il Monty Python’s Flying Circus. Singolarmente o collaborando fra loro hanno poi partecipato a molti film, tra cui Brazil e Un pesce di nome Wanda. In sestetto ne hanno realizzati solo quattro, dal 1971 al 1983. Brian di Nazareth è il terzo, e quello confezionato meglio.

L’attore principale, Graham Chapman, morì prematuramente nel 1989, dieci anni dopo l’uscita del film. Il regista Terry Jones se n’è andato invece nel gennaio di quest’anno, al termine di una lunga malattia. Il giorno dopo la sua scomparsa, John Cleese ha twittato: Tra i suoi numerosi successi, secondo me il regalo più grande che ci ha fatto è stata la sua regia di Life of Brian. Perfezione.

La vita di Brian è quella del 33 d.C., l’ultimo anno di Cristo, e di Brian. Dopo i titoli di testa, lo ritroviamo adulto ma sempre legato alla madre possessiva, in un sabato pomeriggio, naturalmente all’ora del tè, mentre cerca di assistere al Discorso della montagna tenuto da Gesù nel chiasso di una folla irrequieta, tutt’altro che degna delle beatitudini che promette il Messia. Brian non riesce ad ascoltare il discorso, ma incrocia i militanti di un gruppo rivoluzionario, il verboso e inconcludente Fronte Popolare della Giudea, parodia di qualcosa di più vicino a noi. Quando li incontrerà una seconda volta, durante uno spettacolo di gladiatori, Brian chiederà di combattere al loro fianco – soprattutto al fianco dell’impavida Judith – contro gli odiati invasori: gli imperialisti romani. Verrà arruolato, a condizione di dimostrare il proprio coraggio scrivendo sulle mura della città “Yankee go home” in latino: “Romani ite domum”. Lo farà, a costo di una lezione notturna di sintassi.


Brian infatti non può che detestarli, i soldati che hanno occupato la Giudea e frequentano in modo sospetto la sua casa, specie dopo aver saputo dalla madre di essere figlio di un qualunque centurione di passaggio, invece che di un Cohen. Sono moltissime le scene comiche, i personaggi grotteschi con cui vengono sbeffeggiati gli usi e costumi di un’epoca in fondo non troppo antica. Da una parte, la lapidazione dei blasfemi, l’eremita che ha fatto voto di mutismo e povertà assoluti, il mercato affollato di mendicanti e di profeti che fanno presa solo sugli ingenui, ma gli ingenui sono la stragrande maggioranza. Dall’altra, il lusso decadente in cui si trascinano le autorità romane, le mollezze e le isterie di Ponzio Pilato e Marco Pisellonio (sic), la brutalità delle prigioni, l’indifferenza dei soldati semplici ci ricordano qualcosa di sempre attuale. Brian, anima candida che vorrebbe solo stare con Judith, si perde in questo incubo: soverchiato dalla madre, dai romani, dalle folle, dai rivoluzionari a parole, dai fanatici religiosi che non lo lasciano in pace, che lo scambiano per quello che non è, perché in lui vedono e vogliono creare il Messia di cui hanno bisogno, non essendo in grado di autodeterminarsi.

Niente da fare, le masse hanno deciso di adorarlo e seguirlo, anzi inseguirlo, mentre Brian scappa via da loro, scappa lontano da tutti, tranne che da Judith. Solo due extraterrestri mostruosi possono aiutarlo: in una sequenza assurda e geniale per l’incongruenza piombano nel momento del massimo pericolo, sottraendolo con l’astronave al destino terrestre, almeno per un minuto di liberazione. Il destino è tuttavia inevitabile: tradito dal gruppo rivoluzionario, ripudiato dalla madre, mollato da Judith, beffato da un altro condannato, Brian sarà crocifisso insieme a tanti altri dopo l’esilarante orazione di Ponzio Pilato, sostenuto degnamente dall’amico Marco Pisellonio.

L’umorismo dei Monty Python non sopporta limiti: va dal gestaccio all’allusione colta, dalla battuta goliardica alle citazioni di film famosi, fa sorridere o sghignazzare, mescola senza timore i generi cinematografici. E funziona perché non è un umorismo di élite né volgare, non è fine a se stesso. La risata nasce e svanisce naturalmente intorno alla battuta, ma poi resta a lungo un effetto collaterale a livello cerebrale. Una loro gag, mentre fa ridere stimola intuizioni, principi di riflessioni perfino; tocca più tasti, non è mai monocorde. Non si può dire che i Monty Python facciano film di denuncia politica, ma di critica di costume sì, e pure più scomoda di quanto previsto: in Italia il film arrivò in sala dopo ben dodici anni di censura imposta da una Chiesa cattolica triste e miope, che pochi anni prima aveva approvato il divismo kitsch-rock di un Jesus Christ Superstar (1973).
Nel celeberrimo finale sul Golgota, l’essenza filosofica dei magnifici 6, semplice e chiara, viene cantata e fischiettata in coro con l’enunciato del secondo comandamento MP: Always look on the bright side of life.

- Il film è disponibile in italiano su YouTube –

