di Girolamo Di Noto

Mai un documentario è stato così intenso e approfondito di riflessioni come quello sul regista russo Tarkovskij, prodotto dal figlio Andrej. Presentato a Venezia nel 2019, è un’opera che affascina ed emoziona perché ripercorre il pensiero del regista, i suoi ricordi, le sue appassionate riflessioni sull’arte attraverso le parole, le immagini, le scene splendide dei suoi film.

Tarkovskij viene raccontato dal figlio come uomo e come artista e la sua testimonianza oltre che essere preziosa è capace di saper raccogliere un’eredità importante, una trasmissione di valori, un passaggio del testimone che ricorda una delle ultime sequenze del film Sacrificio del regista russo. Nella scena si vede un vecchio monaco piantare un albero sulla cima di un dirupo lasciando al proprio giovane discepolo l’obbligo di innaffiarlo costantemente dopo che se ne sarà andato. Dopo tanto impegno l’albero spoglio finirà per rifiorire. L’operazione – tutta umanistica – che fa il figlio nei confronti del padre ha qualcosa di miracoloso poiché fa “rivivere” l’essenza di un cinema, come quello tarkovskiano, strettamente legato alla spiritualità e fortemente abbracciato con la forza emozionante che solo la poesia può donare.

Figlio di Arsenij, uno dei più importanti poeti russi, Tarkovskij prova rispetto per la parola ma si rende conto anche che molte cose sono indicibili, si compiono – come direbbe Rilke – “in uno spazio che mai parola ha varcato”. L’immagine artistica è qualcosa di intangibile, non può essere decifrata, non è sciarada o rebus che ha una soluzione. Per Tarkovskij la veridicità di un’immagine artistica consiste nel portare con sé una dose del mistero del mondo. Questa riflessione che emerge nel documentario si accompagna alla delusione che il regista ha spesso mostrato nei confronti dei critici, i quali, sovente, hanno sostituito l’immediatezza della viva percezione dello spettatore con cliché presi in prestito dalle formulazioni correnti nel linguaggio degli esperti di cinema. Tarkovskij non può essere relegato in un’etichetta proprio perché prima di essere un regista è stato un poeta e come tale sfugge, si dilegua ad ogni possibile presa. Nessuna interpretazione dei suoi film può mai dirsi conclusa, ogni volta che si vede un suo film è come fare esperienza di un’approssimazione. Tarkovskij è tra coloro che creano il loro proprio mondo, non riproducono la realtà. Ha sempre agito sulle emozioni dell’uomo e non sul suo intelletto, ha osservato la vita, assetato di armonia, con l’occhio di un artista.

L’essenza del lavoro di un regista, ebbe modo di dire in un suo libro, “è scolpire il tempo”. Analogamente allo scultore che prende un blocco di marmo e, guidato dalla visione interiore della sua futura opera, toglie ciò che tutto è superfluo, così il cineasta, dal blocco del tempo, taglia fuori o getta via tutto ciò che non serve. Tarkovskij attribuiva all’arte un senso di sacralità poiché è “il gesto artistico che rende più prossima l’umanità a Dio”. Il cinema in questo senso viene visto come una preghiera accorata al mondo affinché possa risvegliarsi dal torpore di un’esistenza meschina. Se la società ha bisogno di spiritualità inizia a produrre arte, a generare artisti, al contrario se l’uomo perde il suo scopo e smette di cercare il motivo per cui vive reca in sé stesso la propria tragedia.

Si ripercorrono nel documentario riflessioni sul tempo, sulla libertà, si intravedono riprese sui set, ci si immerge nella vita del regista attraverso fotogrammi indimenticabili tratti dai suoi capolavori come L’infanzia di Ivan, Andrej Rublëv, Stalker, consci del fatto che, come lui affermava, i film non vanno capiti, ma vanno sentiti, e si devono guardare con gli occhi di un bambino, essendo spogli di costruzioni mentali.

Il film si apre e si chiude con l’immagine del neonato Andrej che dorme beato nella sua culla: fotogramma che rimanda all’importanza che ha avuto per il regista l’infanzia. A Tarkovskij è stato sempre a cuore il tema delle radici, dei legami con la casa paterna. Grande importanza viene riservata ai luoghi, soprattutto alla casa di campagna di Mjasnoe, in Russia, che considera “una clinica”, un luogo dall’atmosfera indescrivibile, in cui è capace di scrivere un libro, di fare qualsiasi cosa, di renderlo un essere umano, un regista. “Mi siedo sui gradini e il cinema ha inizio”. Le immagini che lasciano attoniti per la bellezza richiamano ricordi, sono un flusso di memorie, sono portatrici di sentimenti, lampi di umanità, e consentono di elevare il documentario in un vero e proprio viaggio interiore, ricco di fascino e poesia. Un ritratto intimo e appassionato, un’emozione imperdibile per chi ha amato il cinema di Tarkovskij, un’occasione da non perdere per chi deve ancora scoprirlo.
