L’ultima tentazione di Cristo, di Martin Scorsese (The Last Temptation of Christ USA/1988)

di Laura Pozzi

Posso resistere a tutto, tranne che alle tentazioni” professava il grande Oscar Wilde. Deve aver pensato questo Martin Scorsese quando nel 1988 dopo un fallimentare tentativo andato a vuoto cinque anni prima rimise mano “alla più grande storia mai raccontata”. Ispirato dal romanzo del greco Nikos Kazantzakis Last temptation (pubblicato postumo nel 1960), profetico dono durante le riprese di America 1929: sterminateli senza pietà della futura e conturbante Maria Maddalena/Barbara Hershey, il dodicesimo lungometraggio del regista americano rappresenta probabilmente il suo film più compiuto (come enunciato dallo stesso Redentore nel finale “ritrovato”), ma anche il meno compreso e più contestato. Accompagnata da un’aura di sinistra dannazione, la pellicola presentata alla 45ma edizione della mostra del cinema di Venezia  viene, come da copione, aspramente criticata, tacciata di blasfemia e bollata dal mondo cattolico come inaccettabile e moralmente offensiva. Sostenuta da un clima di violenta repressione si scatena una rovente crociata anti Scorsese, capitanata da protestanti e cattolici militanti più che mai determinati ad abbattere frontalmente con veemenza e sdegno qualsiasi libertà interpretativa a favore di un’unanime condanna focalizzata sugli aspetti scandalistici della storia. La Commissione Episcopale italiana invita la stampa cattolica ad astenersi da ogni commento critico lasciando agonizzare l’opera in un silenzio di assordante mediocrità. L’uscita in sala va anche peggio, arrivando a contare un morto e vari feriti in alcune sale di Parigi ad opera di fondamentalisti cattolici, mentre in alcuni Paesi latino americani e in altri come Singapore e Filippine verrà pesantemente censurato e addirittura proibito.

Eppure rivisto oggi a più di trent’anni di distanza, questo film dal passato burrascoso, dal presente incandescente e dal futuro negato (è uno dei meno citati e valorizzati della sua monumentale filmografia) appare una vera e propria confessione a cuore aperto, il diario intimo di un regista che rivendica e riversa nella figura e nelle vesti sacrali di un Cristo allucinato, roso dal dubbio, schiacciato e perseguitato da una “missione impossibile” la sua personale passione per la settima arte affidandole l’arduo e prestigioso compito di cambiare la storia. E’ questa la tentazione “wilderiana” alla quale il cinefilo Scorsese non può proprio sottrarsi, anche a costo di lavorare con un budget irrisorio, di assestare un gancio ad una promettente carriera e di scendere a patti con una major, la Universal, che sì  produrrà il film, ma con l’obbligo di realizzarne subito dopo uno dalla vocazione squisitamente commerciale (Cape fear- il promotorio della paura). La storia prende avvio sulle perturbanti note di Peter Gabriel, su fotogrammi “spinosi”, volutamente saturi di un peccaminoso (rosso) sangue, ma in parte edulcorati da una didascalia che (all’occorrenza) aiuta a mantenere la distanza di sicurezza dai fatti narrati “Questo film non è basato sui Vangeli. E’ solo una riflessione fantastica sugli eterni conflitti dello spirito”. Un Cristo soprannaturale quindi, quasi schizofrenico, in preda a visioni, voci, dubbi e tentazioni affilate come lame. Ma soprattutto un uomo dolorosamente fagocitato dalla paura di non essere all’altezza di un ruolo non richiesto. “Dio mi ama. Lo so che mi ama. E voglio che smetta.” Un Salvatore inquieto, confuso, tormentato, da respingere o dal quale lasciarsi tentare. Anche a costo di assistere allo stravolgimento o più sommessamente all’alternativa di una storia considerata universalmente intoccabile.

A Scorsese importa poco indagare la dimensione  spirituale, ciò che davvero lo esalta è il potersi confrontare nuovamente con un uomo (un magistrale Willem Dafoe) “messo alle corde” dal suo essere divino. A lui interessa intraprendere un viaggio con questo inedito figlio di Dio lacerato dalle incertezze e continuamente tentato da Satana. Un viaggio costruito su tre segmenti narrativi e su tre personaggi (Gesù, Maddalena e Giuda) apparentemente autonomi, ma profondamente legati da un mistico e insolito “sliding doors”. In 160 minuti (di cui solo 40 dedicati alla vita coniugale e al soddisfacimento dei tanto chiacchierati desideri carnali) assistiamo ad una storia in parte conosciuta, imparata a memoria, ma forse non abbastanza credibile, proprio perché priva della tanto vilipesa controparte terrena, l’unica in grado di penetrare gli eventi a 360° gradi ribaltando ruoli e convinzioni. Per fare ciò Scorsese ha bisogno di un brutto, sporco e cattivo, di un traditore, di un Giuda Iscariota (Harvey Keitel) capace di smarcarsi, riprendersi la scena e vivere un amore platonico con quel futuro Messia che lo implora di tradirlo. Ma la decisione di scendere dalla croce cedendo a quell’ultima diabolica tentazione di un angelo satanico, spezzerà l’incantesimo e il cuore del tanto discusso apostolo. Sul letto di morte, dinanzi ad uomo che non ha rispettato i patti e che ha preferito rifugiarsi nella tranquillità del focolare domestico piuttosto che salvare il mondo, Giuda sfogherà tutta la sua rabbia, mostrando come il vero traditore non sia lui, ma quel “figlio” ancora una volta in preda alla paura. La figura di Giuda assume un’importanza strategica, quasi manipolatoria. E’ grazie a lui che Cristo torna sulla croce dove tutto può compiersi in un tripudio di luci e colori accecanti.

Un frame incendiario che sembra celare l’ultima tentazione di un regista che arrivato faticosamente al traguardo decide di distruggere tutto. In realtà dietro la bizzarra sequenza si nasconde un errore – è proprio il caso di dirlo – miracoloso che il bisbetico Martin ha preferito lasciare. Come dichiarato da Thelma Schoonmaker, la straordinaria montatrice, una volta finito il film si è trovata ad assemblare i pezzi accorgendosi con un certo terrore che gli ultimi secondi della pellicola erano da buttare, completamente rovinati dalla luce. Un girato bellissimo, ma inutilizzabile. Tuttavia Scorsese sorprende tutti e decide di lasciare “il miracolo” così com’è. I fatti gli daranno ragione e quella pellicola troppo a lungo osteggiata, umiliata e offesa si trasforma di colpo nella più celeste e trascendentale della versioni narrate. Una malia cinematografica impreziosita dalla sceneggiatura del “solito” Paul Schrader e da un cast irripetibile: oltre a Willem Dafoe, Barbara Hershey e Harvey Keitel è giusto ricordare un sardonico e meraviglioso Harry Dean Stanton nei panni di Saulo/Paolo e un David Bowie nella parte di Pilato. E da un regista che ancora una volta tiene fede al suo unico Dio: il cinema.

2 risposte a "L’ultima tentazione di Cristo, di Martin Scorsese (The Last Temptation of Christ USA/1988)"

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