di Roberta Lamonica

Premessa
Molto più vicino alle atmosfere di Evelina di Fanny Burney e The way of the world di William Congreve che a Orgoglio e Pregiudizio o Cime Tempestose a cui si vorrebbe palesemente richiamare (se proprio si volesse trovare un riferimento letterario), Bridgerton, la nuova acclamata serie di Shonda Rhimes (produttrice esecutiva di Grey’s Anatomy e Le regole del delitto perfetto, su tutte) per la regia di Chris Van Dusen, è un ‘costume drama’ di pessima qualità, IMHO. Inaccostabile a capolavori cinematografici come Barry Lyndon ma anche a period drama televisivi di qualità come Downton Abbey, per citarne due, Bridgerton è la trasposizione televisiva di romanzi assimilabili a quelli della serie Harmony, Regency collection, of course. Nel 2007 Shonda è stata definita dal Time come una delle “100 persone che hanno contribuito a modellare il mondo” e Netflix le ha assicurato un contratto in esclusiva con la sua casa di produzione ‘shondaland’, nome decisamente autocelebrativo e che sembrerebbe tradire un ego leggermente ipertrofico. Grande carriera, grandi intuizioni imprenditoriali, per carità. E il successo planetario e innegabile di Bridgerton le dà ragione, anche in questo caso. Eppure viene da dire: perché, Shonda, perché?

La trama di Bridgerton
La storia, tratta dai romanzi di Julia Quinn è quella di ‘quattro famiglie in un villaggio di campagna’ di austeniana memoria, anche se gran parte dell’azione si svolge a Londra. Una Londra del periodo della Reggenza che è sfondo più immaginato che reale e che non fornisce un credibile contesto vitale e corale alla ‘storia’. Una famiglia alla moda, della buona società, deve iniziare a liberare le stanze del palazzetto di mattoni rossi in cui vivono otto figli, otto. Tutta la prima serie di Bridgerton ruota intorno alle ambasce amorose della figlia maggiore, Daphne, candido orpello insignificante, capriccioso e fastidioso, chiamata per gran parte della serie ‘il diamante’. ‘Bella Camilla’ che non riesce ad accasarsi, all’inizio, vuoi per il fratello-padrone, vuoi perché ‘zazza’ troppo con Simon, duca di Hastings, gran pezzo di figliolo dalla pelle scura e dallo sguardo indecifrabile, Daphne riuscirà a coronare il suo sogno di amore da favola, grazie a una caparbietà degna dell’operatore di call center più accanito. Il personaggio del duca vorrebbe rimandare al maledetto e oscuro Heathcliff ma di byronico non ha neanche la ‘b’; o forse all’aristocratico Mr. Darcy… ma, troppo sensuale e ‘caldo’, è privo della distinzione e della classe, anche un po’ freddine forse, dell’indimenticabile personaggio uscito dalla penna di Jane Austen.

E allora si può ipotizzare che gli ideatori della serie abbiano avuto in mente addirittura l’Othello shakespeariano… ma no, non è possibile. Lì la ‘negritudine’ era un tratto distintivo legato al fattore straniante della presenza dell’ufficiale nero nella società veneziana, alle nuove scoperte geografiche e alla scelta d’amore realmente eversiva di Desdemona che rendeva il suo destino fatale ancor più tragico. Qui si sceglie un attore bellissimo, si fa un minestrone di suggestioni letterarie e lo si appiccica alla meno peggio. Ma per quanto riguarda lui, pover’anima, tanto è. Anzi, Shonda e il suo Sancho Panza Chris Van Dusen, tentano anche di trovare motivazioni psicologiche in un’infanzia negata e deprivata per giustificare la ombrosità del bel duca. Ma è lei, la Daphne che vorrebbe ricordare Audrey Hepburn ma che in realtà ha la stessa frangetta unta (e lo stesso irrefrenabile appetito sessuale) di Anastasia Steele delle 50 sfumature, a essere proprio insopportabile. Frivola e vagamente isterica, passa tutto il giorno ad aspettare di ricevere corteggiatori (oggettivamente attività privilegiata delle signorine di buona società dell’epoca) che per un po’ arrivano copiosi ma poi il fratello (e la fama solleticante di una bellissima creola, conturbante e dalle dubbie origini) li fa scappare e lei stringe un patto mefistofelico, quasi, con il bel duca (che intanto vediamo sempre più ignudo sul ring, giusto per creare l’hype) per ‘vedere l’effetto che fa’.

La nostra eroina si tranquillizzerà solo quando avrà praticato prima del sano autoerotismo, preludio a epiche copulazioni, sul modello dei vari ‘50 sfumature’, una volta sposati. Ah si, perché i due si sposano, visto che lui, durante una festa da ballo, l’ha seguita bramoso in un buio parco, dove lei era scappata proprio per farsi seguire, e l’amica invidiosa li ha visti. Morale della favola: duello in stile classico con i fratelli di lei per riparare l’onore macchiato e matrimonio riparatore su cui pesa l’ombra di un giuramento fatto dal duca Simon al crudele padre. Sul letto di morte il bel duca aveva infatti maledetto la propria nobile casata giurando che non avrebbe mai propagato il suo seme, per vendicarsi di essere stato allontanato e rinnegato dal genitore che lo considerava un po’ ‘lento’ (incredibile come al vecchio duca vengano dati i tratti del peggior imperialista britannico bianco che si possa immaginare). Daphne pur di non rovinare la sua reputazione e quella della famiglia, accetta suo malgrado un triste matrimonio senza discendenza, con un uomo stra ricco, stra bello, che si dedicherà solo a lei. Che disdetta!

Ma la bella Daphne, una volta impalmata, che cosa farà tutto il giorno, dopo aver raccolto fiori di lavanda, giocato all’arredatrice, aver compromesso l’equilibrio economico del ducato non assegnando a un fattore l’appalto per la fornitura di maiali e dopo esserci accoppiata in ogni momento e in tutte le stanze della grande magione, con un erotismo pari a quello dei baci tra Candy Candy e Terence Granstar (anzi no, quelli erano decisamente più erotici)? Non le resta che tentare la celebre ‘mossa dell’ incastro’! Con un’insospettabile mossa da arti marziali, la Daphne cerca di farsi impregnare, contravvenendo a un patto che era alla base dell’unione, salvo poi accusare il marito – sconvolta e tra le lacrime – di averle mentito sulla sua presunta infertilità (che lei aveva immaginato ma lui non aveva mai dichiarato). E lui lì, un ‘carciofo’ devastato dai sensi di colpa.
Quattro famiglie in un villaggio di campagna. Anzi no: due famiglie a Londra.
Così, per uno scandalo in famiglia tra un fratello cadetto e la creola di cui sopra, la Daphne ‘gne gne gne’ torna in famiglia, con carciofo al seguito, stavolta per risolvere e riparare LEI l’onore dei Bridgerton… che poi sembrano la Famiglia Bradford, senza Dick Van Patten e sicuramente meno divertenti. La matriarca è una donna di senso che dà il meglio di sé dopo una serata alcolica e la sorella cadetta, che sarebbe e sembrerebbe una ragazzina un po’ tonta, nella versione italiana ha la voce di una sindacalista tabagista. Una Jo March senza talento, Eloise è impegnata ossessivamente nello svelamento dell’autrice di un libello scandalistico, voce narrante della serie, ma le manca l’acume per capire le verità che ha davanti agli occhi.

La famiglia di cui si seguono le alterne vicende parallelamente a quelle dei Bridgerton è quella dei Featherington: tre figlie identiche alle sorellastre della Cenerentola di Walt Disney (ma proprio uguali, eh!), di cui una sembra essere esente da sentimenti di invidia rapace, almeno fino a quando il cappio della zitellaggine non inizia a stringersi intorno al suo florido collo. Penelope (pronunciata fastidiosamente PenelopI, nella versione italiana, per dimostrare che in Italia sappiamo l’inglese), resta comunque uno dei due personaggi più interessanti della serie, l’altra essendo la creola Marina Thomson. Madre e padre Featherington somigliano ai Bennet ma molto più meschini, viziosi e inutili, soprattutto il padre, nell’economia della storia. La bella Marina, lontana parente (?), è l’unica ad avere una reale evoluzione come personaggio: all’inizio sembra Cenerentola, poi Biancaneve e poi il CEO spregiudicato di un’azienda nella Silicon Valley, per poi trasformarsi nuovamente in fallen angel che troverà una ricompensa per la sua dignitosa sopportazione delle regole e delle convenzioni sociali che la vedono marchiata senza redenzione.

Intorno a questi due nuclei tematici imprescindibili (?) si muove un universo di lord di colore con i dreadlocks, una regina che sembra la regina di cuori di Alice nel Paese delle Meraviglie; un principe ‘fesso’ che viene lasciato con la scarpetta in mano; un pittore che anticipa le atmosfere decadenti con una vita bohémien e un’aria da Britney Spears in “Oh, I did it again!” e una governante che sembra l’istitutrice di Suspense, di Jack Clayton ma con la faccia e le espressioni di Maggie Smith in Harry Potter.

Conclusioni e riferimenti storico-letterari di Bridgerton
Bridgerton è un’operazione televisiva commerciale mortificante per chi ama la storia e la letteratura inglesi del diciottesimo e diciannovesimo secolo. È difficile trovare giustificazione alcuna per aver rovinato una parte così imprescindibile della letteratura femminile britannica, per aver violato – anche citando pedissequamente- la sacralità dell’urgenza espressiva di autrici e intellettuali che con modalità differenti hanno tentato di porre all’attenzione del loro tempo i limiti posti alla loro vita, la vacuità del mondo e dell’universo in cui venivano cresciute, il dramma della dipendenza economica come alternativa alla rovina, la claustrofobia del loro orizzonte dopo il matrimonio e la capacità di provare sentimenti, emozioni e passioni totalizzanti, che venissero rappresentate attraverso la delicatezza del silenzio e non – come nel caso di Bridgerton – con la loro esposizione spoetizzante e voyeuristica a spettatori atonici e pruriginosi.

Bridgerton non è un prodotto di qualità e se si può salvare in parte la ricostruzione fedele degli interni e dei costumi (ma solo parzialmente), il lavoro della sceneggiatura è sciatto, discutibile, culturalmente e storicamente fuorviante. Una parola per il colour-blind casting: un esperimento e una scelta rispettabili ma non necessariamente condivisibili, data la drammaticità della condizione delle popolazioni di colore nei paesi dell’Impero coloniale britannico, asserviti, brutalizzati e trattati alla stregua di bestie, percepiti come ‘fardello dell’uomo bianco’, per quasi tre secoli. Se Shonda avesse voluto mandare un messaggio significativo in tal senso, avrebbe forse dovuto scegliere un protagonista che non sembrasse uscito da una copertina di Vogue e che facesse lampante riferimento a un gusto estetico molto alla moda tra la popolazione femminile caucasica, in un Occidente fintamente inclusivo e avrebbe magari potuto rendere meno macchiettistici, meno smaccatamente ‘bianchi’ i personaggi di colore che mette al centro della storia. In definitiva, una bocciatura clamorosa per una materia narrativa che, dietro lacci e merletti, ha rappresentato l’unica e irripetibile voce per le ‘donne di Jane Austen’, quelle che dopo il corteggiamento e il matrimonio, aspettavano la morte. Tanto non c’era più nulla da dire, della loro vita, nulla da raccontare. Nulla.

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