Jackie Brown, di Quentin Tarantino (USA/1997)

di Laura Pozzi

Con un’iniezione di adrenalina sparata in pieno petto a Uma Thurman/Mia Wallace, Quentin Tarantino nel maggio del 1994 risveglia non solo la sua musa in overdose, ma l’intera cinematografia mondiale. Sotto lo sguardo glaciale eppur elettrizzato di un vecchio leone come Clint Eastwood che a capo della giuria di Cannes decide di premiare  e successivamente consacrare quel trentenne dalla mandibola ribelle, cresciuto a cheeseburger e vhs, affetto da un pericoloso morbo, quello della cinefilia, che in 154 minuti lo porta con la sua originalissima cifra stilistica a stravolgere e riscrivere la grammatica del cinema. Ci riferiamo ovviamente a Pulp fiction, pellicola postmoderna capace di creare un prima e dopo non solo nell’universo cinematografico, ma nell’immaginario collettivo. Tarantino viene letteralmente travolto dal successo, (oltre la Palma d’oro, vincerà l’Oscar come miglior sceneggiatore in coppia con Roger Avary) lui che pochi anni prima in tempi non sospetti aveva firmato con Reservoir dogs uno degli esordi più innovativi e dirompenti di inizio decennio. Ma se a un passato originale e scalpitante, subentra un presente reboante e vertiginosamente fuori controllo, cosa aspettarsi dal futuro? Questo deve aver pensato lo scatenato Quentin che smaltita la sbornia “pulp” deve mettere mano al suo terzo film cercando di superare indenne quel varco dove l’aspettano in molti, probabilmente per dimostrare con un pizzico di perfidia che la sua fiamma è stata troppo intensa per durare e le sue idee davvero troppo fulminee per continuare a tuonare. La sfida si preannuncia ostica, soprattutto per chi non ha alcuna intenzione di bissare il film precedente.

Tarantino prende tempo, forse troppo, ma alla fine decide ancora una volta di metterci la faccia spiazzando fan e detrattori con un film che viaggia a velocità moderata, che non ha nessuna fretta di arrivare, che percorre il suo itinerario con pazienza e  precisione, dilatando i tempi, evitando le brusche frenate o le improvvise impennate del suo illustre predecessore. Stavolta (e per il momento anche l’unica) condivide il piacere della scrittura con Elmore Leonard e con il suo noir Rum Punch. Tuttavia trattandosi di Tarantino qualche ritocco cinefilo è lecito aspettarselo e infatti pur seguendo alla lettera le pagine del libro, l’azione si sposta da Miami a Los Angeles e la protagonista una hostess bionda di quarantaquattro anni, coinvolta in un losco affare da cinquecentomila dollari, da Jackie Burke si trasforma in Jackie Brown mutando non solo il cognome, ma anche e sopratutto il colore della pelle. Un vezzo autoriale, una costante (quella di far brillare attori finiti nel dimenticatoio) una geniale intuizione che ancora una volta risulta vincente e trova nelle fattezze di Pam Grier  l’indimenticata icona degli anni settanta, la regina della blaxploitation, (genere rivolto al  pubblico afroamericano) il perno su cui costruire e far girare la storia. Una pantera ancora scaltrissima, dagli artigli affilati, che già dalla prima inquadratura tiene testa alle magnifiche ossessioni del suo autore, confrontandosi con un Dustin Hoffman fresco di laurea. Così decide di presentarcela Tarantino, con un carrellata laterale, posizionandola laddove Hoffman faceva il suo in ingresso in scena. Sulla splendida Across 110th Street di Bobby Womack (ma tutta la soundtrack è da urlo) la Grier ripercorre da ferma i passi del confuso Benjamin Braddock per poi lasciarsi circuire da una macchina da presa sfrontatamente esigente nel cingere il suo corpo, sfiorare il suo volto, rivivere il suo mito.

Una dichiarazione d’amore, ma anche una sequenza che scopre da subito le carte in tavola e svela gli intenti scarsamente belligeranti del regista (solo nove colpi di pistola sparati e violenza ridotta ai minimi termini). Scordatevi l’incipit di Pulp Fiction, qui non siamo in presenza di rapine ideate da piccioncini svitati e maldestri, di titoli di testa che esplodono come proiettili sulle note di Dick Tale e The Del Tones. Qui c’è la pacatezza di un formidabile autodidatta che tre anni prima ha espugnato a colpi di citazioni, violenza esasperata, saturazione visiva e fratture narrative una roccaforte dorata e ora ha solo bisogno di essere lasciato in pace e di riscoprire la sua vena romantica adagiandosi sul problematico carisma della sua Foxy Brown. Ma Jackie non può ignorare per molto il suo ingombrante passato e allora diventa inevitabile porgere l’altra guancia e riannodare un fil rouge con Ordell Robbie interpretato da un Samuel L. Jackson che avevamo lasciato in piena crisi mistica. Qui l’irresistibile e cruento predicatore, folgorato da Ezechiele 25/17 continua a vestire la tirannia degli uomini malvagi attraverso gli abiti glamour di un trafficante d’armi dal grilletto facile. In compagnia di un catatonico e bipolare Robert De Niro che regala un’interpretazione da custodire in cassaforte e di Melanie una sedicente e strafatta lolita (Bridget Fonda) irrimediabilmente molesta sulla quale Quentin non può fare a meno di riversare i suoi feticismi più spinti. Un quartetto impreziosito da un altro ripescaggio di lusso, il crepuscolare Robert Forster l’uomo delle “cauzioni” che come magnificamente filmato nella scena del loro primo incontro resta letteralmente abbagliato dall’autorevole Jackie.

E’ importante sottolineare questa scena particolarmente significativa in cui lo sguardo del regista si fonde attraverso una leggera zoomata con quello di Forster. Tarantino non rinuncia al piacere della visione, al suo ruolo di spettatore, vuole anche lui godersi la scena e lasciarsi incantare. Per questo decide di azionare il pilota automatico restando in disparte per gran parte della storia, lasciando al racconto e alle relazioni tra i personaggi il compito di condurre il gioco. O meglio il doppio gioco che tutti gli attori decidono di inscenare a scapito di uno spettatore sempre più disorientato. Ma il genio di Tarantino risiede proprio nell’ incomprensibile seduzione di una storia di cui capiamo all’inizio ben poco, ma che continuiamo a seguire con stoica determinazione. Come se arrivati alla fine della corsa una qualche inaspettabile rivelazione fosse lì pronta ad accoglierci. E in effetti è quello che accade nella famosa scena”triplicata” dove i punti di vista dei vari personaggi convergono svelando il segretissimo piano di Jackie. Da perfetto pilota qual è Tarantino entra in azione nelle manovre più delicate (decollo e atterraggio) affiancando e sostenendo la sua hostess decisa più che mai a centrare la pista. Nella filmografia del regista americano Jackie Brown rappresenta il suo film più intimo e sottovalutato, ma anche il più terapeutico. Quasi un rifugio dell’anima, un posto sacrale al quale tornare per poi ripartire con la giusta ispirazione. Il film, nonostante il premio come miglior attore a Samuel L. Jackson a Berlino verrà accolto con ostracismo e supponenza. Ma Tarantino con un’alzata di spalle riuscirà nuovamente a ribaltare i pronostici e a farla franca. E sarà deciso più che mai a preparare una sanguinosa vendetta già intravista nel malinconico addio al volante di Jackie e nelle pieghe del suo elegante tailleur nero. Beatrix Kiddo (Uma Thurman) e la spietata Elle Drive (Daryl Hannah) sono avvisate.

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