Arizona dream (Il valzer del pesce freccia USA/1992), di Emir Kusturica

di Laura Pozzi

In principio fu Il valzer del pesce freccia. Orso d’argento al festival di Berlino 1993 il quarto travagliatissimo lungometraggio di Emir Kusturica vide luce e schermo solo nel 1998, quando una valorosa distribuzione decise di farlo (ri)circolare, variandone il titolo in Arizona dream dopo la seconda Palma d’oro (la prima nel 1985 per Papà è in viaggio d’affari) e il successo mondiale di Underground. Il film resta nella pluripremiata filmografia del regista bosniaco (Leone d’oro e d’argento a Venezia rispettivamente per Ti ricordi di Dolly Bell? e Gatto nero, gatto bianco) naturalizzato serbo una rara e inafferrabile mosca bianca, destinato ad un pubblico di nicchia e a vivere all’ombra dei più acclamati “fratelli” europei. Eppure basta volgere lo sguardo al sontuoso cast, un inedito e accattivante mix generazionale folle e stralunato per lasciarsi stregare dalla ineffabile grazia e poesia di un misconosciuto gioiello d’autore. Certo Kusturica è uno da maneggiare con cura, la sua vulcanica personalità, l’incontenibile caos danzante, il suo stile eccessivo e straripante può risultare a tratti indigesto, ma stavolta sa di giocarsi una trasferta importante, una sfida nella quale far convergere nella giusta misura la fascinazione del cinema a stelle e strisce con le contraddizioni del suo sogno. Nel suo primo ed unico film americano parte alla stregua di un disincantato e smaliziato Colombo che non ha più nulla da scoprire, ma ancora molto su cui riflettere. Il suo bagaglio è una valigia piena di sogni che partita dal Polo Nord, scortata da un palloncino rosso e da un affascinante halibut, scaraventa su un gruppo di “svalvolati on the road” per provare a vuotarne il contenuto e farlo volare alto negli sconfinati e nostalgici cieli fordiani. Sogni che si materializzano e sfidano, come mostra lo straordinario e suggestivo incipit una natura gelida e impervia per ardere nella fiamma perpetua di un agognato fuoco sacro.

 Axel Blackmar (un celestiale Johnny Depp, deterso dai geniali trucchi burtoniani e ancora molto lontano da pirati molesti e gossip dozzinali) è un giovane solitario che sogna gli eschimesi e si lancia in profonde riflessioni esistenziali. Impiegato nel Dipartimento di caccia e pesca di New York, il suo lavoro consiste nel misurare, etichettare e preparare i pesci per l’oceano. Affascinato dall’ovattata esistenza di queste creature fluttuanti capaci di entrare nei suoi sogni e con le quali è in grado di stabilire un legame naturale, un giorno riceve dall’Arizona la visita del cugino Paul (Vincent Gallo) che gli comunica l’imminente matrimonio di suo zio Leo (un Jerry Lewis strepitoso in una delle sue ultime interpretazioni) con la giovane Millie (Paulina Porizkova) e la decisione di invitarlo alle nozze in qualità di testimone.  In realtà dietro alla frivolezza dell’ evento, Leo ha ipotecato il destino dell’ingenuo Axel che preso in trappola da una sbronza si ritrova in Arizona con un impero Cadillac ai suoi piedi. La prospettiva di gestire quel regno di automobili, soldi e successo lo entusiasma poco, lui abituato alla discreta complicità dei suoi adorati pesci e ai suoi sogni ad occhi aperti interrotti solo dai lapidari ammonimenti di due genitori persi durante un incidente stradale causato proprio dal mitico zio. Si perchè agli occhi del giovane, Leo non è soltanto Jerry Lewis, ma anche l’eroe di un’infanzia felice profumata di scadente acqua di colonia. Tuttavia la fatale apparizione di Elaine (una matura e ancora abbagliante Faye Dunaway) una “mammina cara” egocentrica e non più giovanissima che sogna di volare e della problematica Grace (Lili Taylor) figliastra psicolabile ossessionata dal suicidio e dal sogno di reincarnarsi in una tartaruga lo convinceranno a restare e ad isolarsi dal mondo per vivere un bislacco rapporto a tre nell’arido e infuocato deserto americano. Ognuno con il proprio sogno da inseguire e realizzare.

Il film raggiunse tempi di lavorazione record (un anno), fu sottoposto a varie controversie produttive e subì uno stop di tre mesi in cui Kusturica rimase vittima di un esaurimento nervoso che lo portò a bloccare le riprese per scarsa ispirazione e come ammetterà lo stesso Depp, durante un’intervista, per l’innata incapacità di mentire. Girato durante la feroce e cruenta guerra in Jugoslavia, il regista cerca inutilmente di prendere le distanze, ma lo straziante grido di dolore e il lancinante richiamo verso la martoriata terra natia non resta inascoltato trovando in Grace (un’autodistruttiva Lili Taylor di rara intensità), nella sua fisarmonica, nelle sue deformazioni mentali, nel suo proclamarsi irrimediabilmente “storta” la sua confidente spirituale. Come lo stesso Axel del resto, che in previsione di una quasi ufficiale storia d’amore si sentirà respingere con un perentorio “Due cose storte non ne fanno una dritta”.  L’America (o  meglio il suo sogno) e la Jugoslavia due terre lontane eppure indissolubilmente legate dallo spettro di una disfatta, di una disgregazione prossima e inevitabile. Ma la potenza dei sogni e soprattutto del cinema sembrano avere la meglio su tutti, anche su una realtà indifendibile.

Da inguaribile cinefilo Kusturica s’impossessa del sogno prima che assuma le angosciose sembianze di un incubo appropriandosi della sceneggiatura di un suo allievo, David Atkins, e trasformandola con un trucco da gitano in uno dei più struggenti omaggi alla settima arte. Jerry Lewis, Faye Dunaway, ma soprattutto lo spregiudicato Vincent Gallo che gioca audacemente con Alfred Hitchcock, Francis Ford Coppola e Martin Scorsese deliziandoci con indimenticabili e spassosissime rivisitazioni, (su tutte quella di Cary Grant in Intrigo internazionale) di celeberrimi capolavori. Un film non per tutti i gusti, ma per tutti i sogni (e sognatori): lieve, nostalgico, anarcoide, ma intriso di profonda irrequietezza e avvolto da una sottile cupezza stemperata in parte da un’apparente vitalità (tipica del suo cinema) che dialoga incessantemente con la morte e con la paura di crescere, sullo sfondo di un sogno americano di cui si distinguono a malapena i contorni. L’America vista con gli occhi di un europeo appare meno solenne e più vulnerabile di quanto si possa immaginare. Una terra promessa gravida di aspettative, ma profondamente lacerata dal suo mito, incapace di far fronte alla sua inviolabilità. Un sogno che solo le infinite potenzialità e il talento visionario di Kusturica, senza dimenticare il fiammeggiante contributo sonoro di Goran Bregović qui in coppia con Iggy Pop poteva rendere allo stesso tempo credibile e paradossale. Una potenza espressiva che si materializza attraverso le armi del grottesco, del surreale, ma anche della struggente poesia che circonda le fragili vite dei protagonisti e che decreta il passaggio verso l’età adulta attraverso un pesce che sposta gli occhi in un’unica direzione. Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, ma anche di tutti i film che abbiamo visto e di cui ci siamo segretamente innamorati. Ma un innamoramento come celebra Axel in un momento di amore puro verso Elaine, non da morire, ma da volare.

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