di Andrea Lilli –

“Non ci serve un altro eroe”, We don’t need another hero, proclamava Tina Turner (Aunty Entity) in Mad Max 3 (1985) di fronte all’eroico ex poliziotto Max Rockatansky (Mel Gibson), The Interceptor. Balle. Gli americani, nei trentacinque anni successivi a quella canzone e soprattutto pochi giorni fa, sbigottiti e preoccupati mentre guardavano alla tv un assalto vero al loro Parlamento, hanno continuato a sentire il bisogno di eroi, anche se solo eroi del cinema. Di più: hanno richiamato alle armi veterani come Robert McCall (Denzel Washington, classe 1954), The Equalizer, che ha fatto egregiamente il suo dovere per due volte. The Equalizer 2 – Senza perdono (2018), ha ottenuto un successo di pubblico almeno pari a quello della prima uscita, cosa che non sempre succede con i sequel. Vedremo come andrà con l’inevitabile The Equalizer 3, Covid permettendo. Ad ogni buon conto (di botteghino) la vecchia guardia continua ad essere operativa, pronta come sempre a combattere i nemici malvagi per proteggere i buoni investimenti dei produttori di Hollywood: Harrison Ford (77), Sylvester Stallone (74), Arnold Schwarzenegger (72), Liam Neeson (68), Bruce Willis e lo stesso Mel Gibson (65), con Tom Cruise che si avvicina impavido a quota 60; e poi, chissà che frulla ancora nella testa dell’inossidabile Clint Eastwood (90). La sicurezza dell’esperienza, l’usato garantito contro la brillante incostanza del nuovo.

Chi è mai l’Equalizer? Più che vendicare, equalize significa bilanciare, regolare, ristabilire un equilibrio, una giustezza. “Figlio” della serie televisiva degli anni ’80 Un giustiziere a New York, Robert McCall sembra dapprima un uomo riservato di mezza età e tante rughe che vive da solo nella periferia di Boston. Ha una casa ordinata, pulita e silenziosa, libri sugli scaffali anziché la tv sempre accesa. Prepara frullati sani e nutrienti a colazione, cene sobrie solitarie, poi lava la tazza, il piatto, il bicchiere, la forchetta, il coltello. Non si sa se abbia una macchina: si sposta in bus. Non tollera il disordine; cronometra e memorizza tutto ciò che gli interessa. Metodico, meticoloso. E insonne. Ricordi dolorosi lo tormentano. Osservare l’oceano lo aiuta a riflettere, così come leggere romanzi classici. Robert McCall è un uomo ferito, un ex qualcuno d’importante, ma sicuramente non è un uomo tranquillo (J. Ford, 1952), perché ha un rimorso enorme che gli ha fatto cambiare vita, chiudere e ricominciare tutto. Passa le notti in un bar-tavola calda simile a quello del famoso quadro di Edward Hopper, Nighthawks (Nottambuli, appunto), seduto davanti ad un tè caldo e un buon libro.



Vuol completare la sua lista dei cento romanzi più importanti (probabilmente quella compilata dal Norwegian Book Club); è già arrivato al novantunesimo: Il vecchio e il mare. Nel corso della storia tirerà fuori anche Don Chisciotte e L’uomo invisibile, titoli che in qualche modo lo riguardano, e da cui non si separa nemmeno quando parla con l’altra cliente abituale del bar, la giovane prostituta Alina, nome d’arte Teri (Chloë Grace Moretz). Inoltre, se in mani esperte, un libro rilegato può essere usato come arma d’emergenza. Alina è una ragazza dell’est europeo, schiava sfruttata da spietati carnefici della mafia russa. Quasi ammazzata di botte per aver osato reagire ad un cliente che la picchiava, è la fanciulla prigioniera per cui, come un taxi driver ma più lucido di Travis, l’eroe a riposo McCall decide di fare un’eccezione al suo nuovo stile di vita. Sgominerà da solo, con metodo, meticolosamente, in orari perlopiù notturni, l’intera gang russa facente capo al magnate Vladimir Pushkin. Un nome inquietante, ibrido tra il presidente Vladimir Putin e l’incolpevole poeta del primo ‘800, Aleksandr Puškin.

Bob McCall nella sua vita nuova lavora da semplice commesso in un megastore di bricolage, benvoluto dai colleghi, che non sanno nulla del suo curriculum nei servizi segreti. Del suo passato nessuno sa niente, perché McCall non dice una virgola dei fatti suoi, a parte la simpatia per la musica dei Gladys Knight and The Pips, gruppo soul di ambiente Motown popolare negli anni ’60 e ‘70. McCall è asciutto e attento nei dialoghi come nei gesti, non alza mai la voce, mantiene sempre la calma, talvolta dispensa pillole di saggezza. Incoraggia il giovane Ralphie, un collega di origine ispanica che vorrebbe superare le prove per entrare nella security del negozio, ma ha problemi di sovrappeso. Nessun problema: McCall è un eroe su cui contare anche per i piccoli miracoli, quelli grandi possono aspettare. Lo aiuta nella dieta, nell’autostima, e Ralphie riuscirà a superare i test.
Il regista afroamericano Antoine Fuqua si mostra sensibile al tema dell’integrazione razziale caro allo stesso Denzel Washington, con cui Fuqua nel 2001 già aveva girato Training Day, premiato con l’Oscar per il miglior attore protagonista. Ora, in The Equalizer il nemico n. 1 è quello classico: i russi, nella variante mafiosa anziché la solita cricca Cremlino-KGB-Armata Rossa. Putin, pardon, Pushkin, il suo braccio destro Nicolai (Marton Csokas), il braccio sinistro Slavi, i loro numerosi scagnozzi sono criminali odiosi, arroganti e potenti. Poi ci sono i poliziotti corrotti. Che goduria vederli cadere uno ad uno, uccisi o redenti fantasiosamente dal ferramenta McCann, abilissimo inventore di trappole, imperturbabile e preciso come il cronometro che porta al polso, con cui è in ossessiva competizione. Ma detto questo, e riconosciuta al regista una notevole maestria nei cambi di ritmo, nella tenuta della tensione che trattiene gli occhi allo schermo, se potessimo suggerire a Fuqua e Washington (l’attore) il prossimo nemico da battere per The Equalizer 3, indicheremmo i pericolosi burattinai dell’assalto a Washington (la capitale), avvenuto il 6 gennaio.

L’intrusione forzata nella sede del Congresso mentre i parlamentari stavano per certificare la vittoria di Joe Biden, ha visto partecipare esclusivamente white americans, e nemmeno tra i manifestanti rimasti all’esterno del Campidoglio comparivano individui colored di origine africana, ispanica o asiatica. L’attacco è stato l’ulteriore dimostrazione di come la realtà possa superare la fantapolitica, e ci aiuta a capire perché certi eroi salvatori e consolatori attecchiscono facilmente nell’immaginario USA, ancor più se siano personaggi carismatici realmente vissuti, come ad esempio Malcolm X, interpretato dallo stesso Denzel Washington (Spike Lee, 1992).
Gli sceneggiatori di Hollywood ci avevano convinto che per conquistare il Campidoglio bisognava essere marziani, su immense piattaforme stellari, che sparano raggi fotonici sul cupolone. Oppure supercriminali volanti e giganteschi, che abbattono grattacieli con un pugno. O reduci dell’armata sovietica, con bombe nucleari a tracolla, se non eserciti islamisti guidati da mercenari armatissimi e spietati. Nessuno però aveva scommesso su una presa del palazzo in stile Marco Ferreri o Brancaleone alle crociate.
(Andrea Inglese, Nazioneindiana.com)

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