A Venezia…un dicembre rosso shocking, di Nicolas Roeg (Don’t Look Now GB/1973)

di Laura Pozzi

Una coppia di coniugi trafitta dal dolore, una Venezia senza luna, anonima e spettrale deturpata da un impermeabile rosso che ne decreta una morte decisamente poco letteraria. E un titolo italiano  tra i più idioti e nocivi di sempre, che stravolge al pari di una censura una storia totalmente incentrata sul tempo e sulle modalità dello sguardo. Don’t look now, letteralmente non guardare ora è il terzo film di Nicolas Roeg, che dopo un illustre passato come direttore della fotografia (ricordiamo fra i tanti  La maschera della morte rossa di Roger Corman, Il dottor Zivago di David Lean, Fahrenheit 451 di François Truffaut) nel 1973 realizza (forse) la sua opera più nota, sottilmente aliena, figlia di un uomo caduto sulla terra (parafrasando un altro titolo cult) chiamato a filtrare attraverso il mezzo cinematografico le contorsioni di un presente volutamente paranoico. Un mezzo che nelle mani del regista inglese, scomparso novantenne poco più di due anni fa assume le fattezze di un corpo soprannaturale in grado attraverso una personalissima tecnica di montaggio, il cut-up, e una fotografia di mefistofelica bellezza (firmata dal grande Anthony B. Richmond) di comporre immagini impressioniste, mosse da sottile inquietudine, turbate da oscuri presagi, immerse nel liquido amniotico di un futuro da “rimontare”. Un incipit ingannatore, funestato da fotogrammi apparentemente privi di logica disorienta da subito lo sguardo. La fallace armonia emanata da un paesaggio bucolico dove Christine un’angelica Cappuccetto rosso cinta da un impermeabile, corre e scalpita nel giardino di casa allenta momentaneamente la tensione, anche se nei paraggi percepiamo la presenza di un lupo cattivo pronto a battere cassa. Poco distante, davanti al caminetto acceso i suoi genitori John (Donald Sutherland) e Laura Baxter (Julie Christie) conversano amabilmente. Laura cerca di trovare risposta ad un quesito posto dalla figlioletta “Se in mondo è rotondo, perché uno stagno gelato è piatto?” mentre John osserva e studia con la lente d’ingrandimento delle diapositive scattate all’interno di una chiesa. Improvvisamente viene colto da un oscuro presentimento che lo catapulta fuori alla ricerca della piccola, mentre una foto dove compare  di spalle una figura contraffatta da un cappuccio rosso comincia ad inondarsi di sangue. Il corpo senza vita di Christine viene rinvenuto sul fondo di uno stagno.

L’azione si sposta a Venezia dove l’uomo viene chiamato per il restauro di alcuni mosaici religiosi. Il dolore per la scomparsa di Christine è ancora molto forte, ma Laura sembra aver trovato l’antidoto grazie alla compagnia di Heather e Wendy due anziane sorelle scozzesi conosciute all’interno di un ristorante. Heather è una sensitiva non vedente, ma grazie al suo “dono” può comunicare con i morti e trasmettere messaggi ai loro cari. Se per Laura sapere della presenza felice e impalpabile della figlia equivale a un’insperata rinascita, per John (sul quale incombe un pericolo imminente) la faccenda si tinge di pericolosa inverosimiglianza . Nel frattempo dalle melmose acque della laguna affiorano cadaveri, mentre John elabora dei flash visivi su una misteriosa presenza con impermeabile rosso che si aggira veloce e indisturbata tra vicoli e calli. La sua mente comincia a sfaldarsi, ad inciampare nella storia, disseminando nella caduta tessere mnemoniche indecifrabili. Il delirio è a un passo, così come le immagini che sedotte da un montaggio dissoluto e sregolato confondono i piani temporali. Tuttavia il racconto (a differenza di Lynch) non impazzisce, conserva ammirevole lucidità, mantiene i nervi saldi e si affida ad un’(in)coerenza narrativa, focalizzata allo svelamento di un congegno impeccabile. In uno scenario d’oltretomba, in un regno di morti viventi fumoso e primordiale, John arriva alla verità ricomponendo i mille pezzi di un delirio annunciato. Roeg realizza un finale agghiacciante, da antologia ancora oggi in grado di sporcare e atterrire con vivide e sataniche pennellate di rosso lo sguardo più scafato.

Tratto da un racconto di Daphne du Maurier, la sacerdotessa della suspence già “braccata” da Alfred Hitchcock in Rebecca, la prima moglie e ne Gli uccelli, il film pur nella sua impenetrabilità sposa fedelmente l’universo visionario della scrittrice restituendo la cupa ed enigmatica atmosfera delle sue opere. Venezia è indubbiamente la protagonista indiscussa della storia, ma anche l’elemento più volubile e inaffidabile della vicenda. Una città dai mille volti, dalle innumerevoli sfaccettature che seduce e confonde attraverso un maledettismo intrinseco. E che cambia pelle a seconda dello sguardo riflettendo e riversando nella luccicanza delle acque e nelle grida dei gabbiani gli stati d’animo più fuggevoli. Bella e dispersiva, spaventevole e ombrosa, amata da Milton e detestata da Wendy che la definisce una città “in gelatina” un avanzo di una cena in cui gli invitati sono morti o fuggiti. Mentre Roeg la svuota e la spoglia del suo magnetismo, della sua immagine da cartolina per penetrarla nelle labirintiche zone d’ombra evocando il fascino remoto di una piccola Fowey, la cittadina della Cornovaglia tanto cara alla scrittrice inglese. Tutta la storia del resto gioca sul tema del doppio, sul dualismo vero/falso e non potrebbe essere altrimenti vista la complessità di una messa in scena sempre in bilico tra originale e apocrifo. Una complessità che investe lo stesso John, più volte alle prese con un restauro che probabilmente non convince nemmeno l’Onnipotente. “Le chiese appartengono a Dio, ma lui ha smesso di occuparsene. Avrà altre priorità” questo dichiara il vescovo Barbarrigo (un ermetico Massimo Serato) chiamato a supervisionare i lavori. Su quale sia la visione corretta, su quale siano i dettagli da cogliere e su quale sia il momento giusto per guardare, Roeg non fornisce indicazioni, o meglio non le fornisce in modo esplicito, lasciando il tempo di elaborare e far sedimentare una visione liquida, inafferrabile, mai del tutto compiuta.

Ma anche incredibilmente eccitante come mostra l’animalesca e  contestatissima scena di sesso (si dice non del tutto simulata) tra Donald Sutherland e Julie Christie. Attraverso un montaggio incrociato con fotogrammi che mostrano momenti immediatamente successivi al rapporto, (tecnica abilmente ripresa da Steven Sodebergh nella scena hot di Out of sight ) Roeg cristallizza la dimensione orrorifica per distendere finalmente lo sguardo attraverso un’indimenticabile sinfonia dei sensi. Il film oltre allo strepitoso montaggio di Graeme Clifford, si avvale dell’eccellente partitura musicale di Pino Donaggio, qui a alla sua prima “esperienza” cinematografica. Ma le strizzatine d’occhio al giallo all’italiana non mancano  ( su tutti Chi l’ha vista morire? di Aldo Lado), così come succulenti anticipazioni argentiane (il finale non può non rimandare a Profondo rosso, uscito due anni dopo). Eppure il film fu inizialmente stroncato e accolto con riserva, per poi essere riabilitato dal British Film Institute che l’ha collocato all’ottavo posto dei cento migliori film del XX secolo. Senza dubbio una delle opere più suggestive, seducenti e innovative degli anni Settanta.

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