Ignoti alla città (Italia/1958), Stendalì (suonano ancora) (Italia/1960), La canta delle marane (Italia/1961), Essere donne (Italia/1964)
di Girolamo Di Noto

Come accade sempre con i lavori che sono stati una forte esperienza di impatto visivo, si può senz’altro affermare che i documentari di Cecilia Mangini, alla pari di quelli di De Seta, conservano una straordinaria scoperta di valore esistenziale, sempre pronti a sorprenderci, a offrirci inattese emozioni. Il cinema italiano si è nutrito di sguardi originali, dissacratori, anticonformisti: quello della regista pugliese, nata a Mola di Bari nel 1927 e scomparsa da poco a 93 anni, è stato uno dei più curiosi e coraggiosi del nostro tempo.

In un mondo quasi totalmente presidiato dagli uomini, Cecilia Mangini fu la prima donna documentarista in Italia. Coraggio ne aveva da vendere, sin da quando si affacciò per la prima volta in una scuola molto prestigiosa di Roma per fare cinema: “ditemi tutto quello che serve, qui da voi, per diventare regista”. Mi hanno guardata sbalorditi e hanno risposto: “no, impossibile. Le donne non possono fare regia “. Sarte, costumiste, truccatrici, ma registe no”.

Con la caparbietà che la contraddistinse, riuscì a farsi spazio e fu abile nel saper raccontare ciò che l’Italia stava perdendo e ciò che stava diventando alla fine degli anni Cinquanta. Attraverso il suo sguardo da umanista, influenzata da persone del calibro di Carlo Levi, De Martino, Pasolini, la Mangini è stata straordinaria, con una mirabile capacità di sintesi, a descrivere attraverso l’immagine un mare di persone: borgatari, prefiche, ragazzi di vita, operaie tutte accomunate dalla voglia di emergere, di lottare.

Vedere questi piccoli film è come vedere qualcosa che non conosciamo, un mondo ormai perduto, imprescindibile, che va visto e rivisto, sfogliato come un testo di storia. Uno sguardo, quello di Cecilia Mangini, spogliato di tutte le idee preconcette, alla ricerca di qualcosa di molto più profondo della verità, di una volontà di trasmettere una memoria non preconfezionata ma, come amava dire lei, “agita e dubitata”, sempre oltre, al di là di ogni pregiudizio.

Nei suoi primi cortometraggi, grazie alla collaborazione con Pasolini, mise in risalto con grazia e leggerezza un sottoproletariato urbano in cerca di identità, scrutò facce ignote, facce ancora acerbe e impreparate ad affrontare il mondo, segnate dalla fatica e dal lavoro, spaesate, impaurite. L’incontro con Pasolini fu fortunato e spontaneo: chiese di avere la sua collaborazione – “io non ero nessuno, avevo solo firmato qualche fotografia” e per trovare la disponibilità del poeta e regista a Cecilia bastò cercare il suo numero di telefono sull’elenco e attendere che Pasolini alzasse la cornetta.
Con il regista di Accattone, la Mangini lavorò in Ignoti alla città, un piccolo gioiello, che mostra la desolazione della campagna devastata dal cemento delle periferie, che dà voce a coloro che vagano per le strade senza meta, anime leggere che si perdono in polverosi labirinti, che hanno un fratello se non per litigare, che lavorano per dare cento lire alla madre e cento lire per divertirsi, che vivono di espedienti e cercano nell’amore la consolazione alla miseria. Pasolini, tre anni prima, con Ragazzi di vita aveva tracciato la vita degli adolescenti nella ripetitiva quotidianità della borgata romana. Autore scomodo, grazie alla forza delle immagini della Mangini, saprà commentare una realtà altrettanto scomoda popolata da giovani “la cui pietà sarà nell’essere spietati, la loro innocenza nei loro vizi, la loro forza nella leggerezza, la speranza nel non avere speranza”.

Tratto dal saggio Morte e pianto rituale nel mondo antico di Ernesto De Martino, Stendalì è invece un suggestivo canto funebre eseguito da donne salentine che usano un dialetto greco per accompagnare un defunto. Le lamentazioni disperate e cantilenanti si avvicendano fino al tramonto e sono tra le più alte forme di poesia popolare. L’aggiunta di un testo scritto per l’occasione da Pasolini e recitato da Lilla Brignone rende ancora più forte questa testimonianza così come lo sarà La canta delle marane, dieci minuti di poesia, che vede protagonisti un gruppo di ragazzini che sguazza nell’acqua opaca di una ” marrana” popolata di anguille. Il bagno rappresenta qui un momento ludico e di protesta e l’opera diventa l’elogio dell’anarchia giovanile, l’incanto di un mondo ancora immune alla modernità.

Indomita, vivace, vitale, Cecilia Mangini è stata una combattiva testimone del nostro ieri e del nostro oggi, ha sempre mostrato un’ostinata passione per il reale, testimoniata anche dall’importante mediometraggio Essere donne, che ottenne il premio speciale della giuria nel festival del documentario di Lipsia e che racconta la situazione delle donne nell’Italia del boom economico. Inizia con immagini che mettono in mostra il mito del benessere per poi soffermarsi sul mondo del lavoro sommerso, addentrandosi nelle fabbriche per catturare timidi sguardi delle operaie o nei campi a toccare con mano la solitudine delle donne. La scoperta è l’incontro con donne “agite dalla fabbrica, dal lavoro contadino, dalla famiglia”, che sono al limite e che vanno a casa “rotte e non ci rendiamo conto che crepiamo venti anni prima “.

Esemplare nello stile, Cecilia Mangini ha saputo raccontare il mondo con passione infinita e attraverso uno spirito mai addomesticato ha esplorato un’Italia nascosta, troppo scomoda per essere messa in primo piano e per questo spesso censurata e snobbata. Malgrado le difficoltà incontrate, non si è mai persa d’animo e la sua opera non è che una forma di libertà, di tenacia ed è un messaggio di grande respiro che tutti noi dovremmo sempre tenere in considerazione.

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