di Roberta Lamonica
“Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto; non penso, accumulo passivamente impressioni. Un giorno tutto ciò dovrà essere sviluppato, attentamente stampato, fissato”.
(Christopher Isherwood, Addio a Berlino, 1939).
Blow-up, la giornata di un fotografo nella Swinging London
Volto stanco e segnato tra tanti altri uguali, Thomas (David Hemmings) esce dal ricovero per senzatetto dove ha trascorso la notte per un progetto legato alla sua professione, trascinato da quel flusso di anime stanche. Tutto sembra esattamente come è stato per più di due secoli: vecchi edifici industriali dove la povertà si ammassa e si colora del grigio fumo di pareti incrostate; la tradizione ottocentesca della ‘rag week’ rompe il silenzio di una Londra mattutina livida e sospesa su giovani volti inespressivi truccati di bianco, la cui forza ribelle si esaurisce in un rumoroso girotondo in jeep su uno spiazzo riparato… Eppure, la vita e la società londinesi sono in un momento di fermento senza precedenti: la Swinging London, la sua moda, la musica, il costume, l’arte, la cultura, un sottobosco brulicante di nuove istanze e nuove opportunità espressive. Thomas è un ‘testimone’ e un discepolo di questo nuovo culto fatto di colori e psichedelia, di nuove forme in continua trasformazione e nuove letture della realtà; di gonne corte e gambe lunghe.. È un fotografo di moda e uno di quelli famosi, anche. Dall’atmosfera di mestizia dell’ostello alla messa a fuoco di questo affascinante protagonista passa il tempo di un flash: i capelli lunghi e spettinati, vestito ‘à la Sachs’ con pantaloni bianchi, camicia sbottonata e mocassini; il privilegio di una strepitosa Rolls Royce decappottabile, guidata con la stessa disinvoltura di una bicicletta. Instancabile e frenetico come il mondo in cui si muove, Thomas osserva, decodifica, fotografa. L’enorme studio dove sfondi colorati e pareti di plexiglas si accumulano e permangono più delle persone che vi si trovano a passare, è un tempio di questa nuova modernità: sottofondo jazz, divani consumati e posizionati senza un’apparente logica, travi di legno orizzontali su pareti che si allungano bianche e infinite. Inizia la giornata di lavoro di Thomas: fotografa Veruschka, super modella eterea e magrissima; la bracca con la sua macchina fotografica, la invoglia, la seduce; lei si lascia prendere da quell’occhio meccanico che ne penetra l’essenza con fare perentorio. Il risultato vede fotografo e ‘fotografata’ esausti, come dopo un vero amplesso, quasi una profetica anticipazione della natura virtuale di molte relazioni sessuali nella nostra epoca.

Altri servizi fotografici, due giovani aspiranti modelle che gli ronzano intorno come mosche, una colazione di lavoro con il suo editore e un appuntamento per acquistare un negozio di antichità. Si muove, il bel fotografo, trasportato dal flusso, irrequieto, annoiato, indifferente… Dietro il negozio c’è un parco: attratto dalle ‘risate’ argentine delle foglie degli alberi mosse dal vento, Thomas entra nel parco e segue con lo sguardo una coppia. Li fotografa durante le loro schermaglie: lei è bella ed elegante. Jane (Vanessa Redgrave) – questo è il nome della donna – si accorge della presenza del fotografo e lo ‘insegue’ fino allo studio per farsi dare il rullino con i negativi. Un incontro senza alcuna emozione o coinvolgimento, quello tra i due; Thomas le dà un rullino sbagliato e la donna esce praticamente di scena, salvo poi ricomparire e sparire di nuovo per un attimo, come un fantasma, verso la fine del film. Ma il suo sguardo rivolto in una particolare direzione nelle foto che Thomas ha scattato al parco, lo convince di aver sventato, testimoniato e infine immaginato un omicidio. L’indagine personale del fotografo sull’omicidio vero o presunto avvenuto nel parco, ma soprattutto l’investigazione delle immagini rivelatrici dell’omicidio – quegli ingrandimenti che perdono forma e si trasformano in ‘materia bruta’ da rimodellare e interpretare come un quadro astratto – assorbiranno tutte le energie di Thomas, dando un nuovo impulso alla sua giornata. La vuota sovrapposizione di sensazioni derivanti da desideri e piaceri effimeri non crea stratificazione o competenza emotiva: non ci sono relazioni, sentimenti o passioni che modifichino o trasformino il protagonista: il suo rapporto con le donne è distaccato e vagamente maschilista; la chitarra feticcio che Jeff Beck sfascia nel locale notturno sì svuota di senso fuori dal contesto che ne ha determinato lo status specifico. Nulla accende lo sguardo di Thomas fuori dalla dialettica tra lo sguardo naturale e quello meccanico.

Londra fa da sfondo glamourous a questa dialettica ma la sua realtà è quella di un fumoso labirinto popolato da ‘hollow men’, come nella scena della festa nella villa, che Carlo Di Palma illumina di taglio in modo da lambire i protagonisti lasciandoli parzialmente in ombra, come se fossero accanto ad una finestra, icona dei film di Antonioni. La nebbiosa alba londinese che lo accoglie al suo risveglio, vede Thomas soffermarsi a guardare fuori da una grande finestra, proiezione dello sguardo verso il mondo e al contempo imprigionamento nella cornice del quadro, preludio all’amara realizzazione che nell’atto del vedere, anche con l’occhio meccanico che rappresenta perfettamente la realtà, ci sono dei limiti invalicabili. Quando Thomas vede che ciò che ha visto non si vede più (e poiché non si vede più, non esiste), non può far altro che prendere atto della inaffidabilità dello sguardo e di quella realtà che si è sgranata fino a diventare informe. Quell’uomo dietro il cespuglio che Thomas ha prima fotografato, poi ha visto senza vita nel parco e poi è sparito senza lasciare traccia, è diventato un angoscioso “spettro composito, fatto di tanti strati sovrapposti, che i suoi ingrandimenti hanno strappato, fino a consumarlo”.
Accettare che la fotografia dona un’illusione realistica della realtà, ma che sempre di illusione si tratta, porta Thomas a non interrogarsi più sul mondo, sul suo senso o sulla sua mancanza. Piuttosto, alla fine, egli gioca con l’illusione, accoglie il mistero della inconoscibilità del reale e la sua capacità di gabbare i sensi; la finzione del gioco (la partita a tennis degli studenti/mimi) prende vita: la pallina che batte sul campo nello scambio si inizia a sentire: la sentono i mimi (ma loro, clownesche maschere deumanizzate, la sentivano già da prima), la sentiamo noi spettatori, ma soprattutto la sente Thomas. Antonioni si allontana da lui, fino a che, punto sempre più indistinto, sparisce (“ma solo ai nostri occhi“, ha precisato il regista), per tornare materia indistinta, inafferrabile e volatile come il divenire incessante della realtà.
“La scoperta della indistinzione tra realtà e finzione, dunque dell’inautenticità che si cela nella sensibilità stessa – come dice Cuccu – turba il protagonista, che abbassa gli occhi e lentamente si allontana. Inquadrata dall’alto in campo lunghissimo, la sua figura si dissolve nella nuvola verde del prato”.
Ed è “gioco, partita, incontro”.

Blow-up: genesi di un capolavoro
Ispirato dal racconto ‘Le bave del diavolo’ di Julio Cortázar, Michelangelo Antonioni nel 1967 presenta a Cannes, vincendo la Palma d’Oro, il suo primo film in lingua inglese, Blow up (1966), regalando ai cinefili di tutto il mondo un capolavoro e una pietra miliare imprescindibili. Blow up ha esercitato un’influenza enorme su molto cinema e su generazioni successive di cineasti. Omaggi espliciti sono ‘La conversazione’ di Francis Ford Coppola e ‘Blow out’ di Brian De Palma; ma citazioni del capolavoro di Antonioni sono ravvisabili in diverse opere cinematografiche anche inaspettate, come il tedesco Jet Generation – Wie Mädchen heute Männer lieben) o in molta produzione anche argentiniana, in parte ispirata all’opera e alle immagini strepitose del maestro ferrarese, architettura e geometria che giustamente aspirano allo status di poesia.
“Blow up non è un film su un omicidio, ma su un fotografo”, dirà Roger Ebert in una sua rilettura critica del film. E in effetti, il film segue una giornata nella vita di un fotografo di moda, una delle professioni che il neonato mondo dei consumi e dell’immagine aveva reso così prestigiose e invidiate; una giornata fatta di lavoro frenetico ma anche di flânerie, di ‘principesco’ girovagare per raccogliere sensazioni della nuova atmosfera urbana fatta di locali alla moda, di musica rock e di parchi caricati di nuove aspettative e possibili significati. Ciononostante Thomas sembra veicolare la sua esperienza della realtà solo attraverso l’occhio della macchina fotografica dalla quale non si separa mai. E su questa inaffidabilità della visione, in quanto lo sguardo umano viene riconfigurato attraverso le sue nuove “protesi” percettive e cognitive, il maestro ferrarese costruisce Blow-up, che è confezionato come un film giallo, ma del giallo ha solo la confezione.

È questa la filosofia dello sguardo che guida Blow-up e l’ingrandimento fotografico che ne è base tematica. Sfogliando i veli delle apparenze, non rimane che l’informe della materia. “Se ingrandisco non faccio altro che ingrandire la grana della carta, disfo l’immagine a vantaggio della sua materia”, scrive Roland Barthes in La camera chiara. Più ci si avvicina alla sostanza bruta dell’immagine più si sconfina nell’astrazione. Non è un caso che il suo migliore amico, il pittore astratto Bill, parta da un punto sulla tela senza avere idea di cosa quel punto e tanti altri punti come quello produrranno o di quale immagine uscirà fuori: “Quando li faccio non mi dicono niente. Un pasticcio. Dopo un po’ però trovo qualcosa cui attaccarmi… E allora viene fuori da solo. È come trovare la chiave in un libro giallo”. Ed è quella chiave che Thomas vuole trovare, sudando letteralmente sugli ingrandimenti (la cui importanza è sottolineata anche dal non essere presenti nel racconto di Cortazar che ha ispirato il film) che dimostrino la ‘verità’ della sua percezione. Per Antonioni è essenziale cogliere il senso di questa astrazione, cogliere questo passaggio ‘da ciò che è’ a ‘ciò che non è più’ o ‘è diverso da ciò che era’.
“Sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”.
Mentre la fotografia di Thomas congela il passato in uno scatto, il film di cui è protagonista ci mostra l’impossibilità di questo congelamento, dato il continuo trapassare da un istante all’altro, secondo una concezione del tempo moderna e bergsoniana .
Blow-up: Antonioni e la fotografia

A proposito di Gente del Po, Antonioni nel 1964 scriveva:
“Guardando le cose in modo nuovo, me ne impadronivo. Cominciavo a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine. La sua forza il suo mistero».
Il rapporto tra Antonioni e la fotografia è arcinoto. Il cineasta ferrarese, fin dagli esordi, ha dato all’immagine una predominanza assoluta sulla narrazione, riportando il cinema alle sue origini di fotografia animata, di osservazione prolungata della realtà. Alla fine degli anni Cinquanta Antonioni diresse la piece teatrale “I am a camera” di John Van Druten, tratto dal romanzo di Isherwood, ‘Addio a Berlino’. E forse non è stato un caso. Antonioni ha sempre sostenuto che l’atto di guardare costituisce la sua occupazione prevalente. “Io dormirei – ha dichiarato – con la macchina da presa a fianco”. Blow-up è il film più autobiografico di Antonioni, una riflessione sul suo ruolo di artista, perché non solo di cineasta si può parlare nel suo caso. Il risultato è un film strepitoso, un lavoro imprescindibile per qualsiasi speculazione artistica e filosofica sulla visione e sul rapporto tra la realtà e l’astrazione, tra ciò che è immaginato e ciò che è vissuto. Blow-up è uno dei più nitidi capolavori di Antonioni, il più intimamente personale, forse. E forse nessuno meglio di Roland Barthes, ha riconosciuto ad Antonioni il merito di essere vero artista, nel riaffermare la irriducibile dicotomia tra senso e verità: “Chiamo saggezza dell’artista non una virtù antica, ancor meno un discorso mediocre, ma, al contrario, quel sapere morale, quell’acutezza di discernimento che gli permette di non confondere mai il senso e la verità. Quanti crimini l’umanità non ha commesso in nome della Verità! Quante guerre, repressioni, terrori, genocidi, per il trionfo di un senso! Lui, l’artista, sa che il senso di una cosa non è la sua verità…”
E Antonioni, artista completo come pochi, non si è mai stancato nel corso di tutta la sua opera, di indagare e analizzare l’impossibilità di risolvere questa dicotomia: in Blow-up, per la prima volta, ci coinvolge direttamente nella sua riflessione, chiamandoci a condividere la sua finzione, senza cercare di trovare troppe spiegazioni perché in fondo “Questo film, forse, è come lo Zen: nel momento in cui lo si spiega, lo si tradisce.” (Michelangelo Antonioni).

Blow-Up: scheda film
Titolo: Blow-Up
Lingua originale: inglese
Paese di produzione: Italia, Regno Unito, Stati Uniti d’America
Anno di uscita: 1966
Durata: 111 minuti
Genere: drammatico
Regia: Michelangelo Antonioni
Soggetto: Michelangelo Antonioni, Julio Cortázar
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Edward Bond
Produttori: Carlo Ponti, Pierre Rouve
Direttore della fotografia: Carlo Di Palma
Montaggio: Frank Clarke
Musiche: Herbie Hancock
Scenografia: Assheton Gorton
Costumi: Jocelyn Rickards
Trucco: Stephanie Kaye, Paul Rabiger
Cast
David Hemmings: Thomas
Vanessa Redgrave: Jane
John Castle: Bill
Sarah Miles: Patricia
Peter Bowles: Ron
Veruschka (interpreta se stessa) Jane Birkin e Gillian Hills: le due ragazze che vogliono essere fotografate da Thomas
Cameo
il gruppo che si esibisce nel club in cui capita quasi per caso Thomas sono gli Yardbirds con Jimmy Page e Jeff Beck.
Passivamente? Forse! Ma con quanta emozione!! Complimenti per l’articolo davvero approfondito e completo di un film che è un capolavoro di esaltazione della incomunicabilità cantata da tanti poeti contemporanei al film (che è anch’esso poesia). Grazie, Roberta🙏🌹 !!
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Marcello, grazie a te per leggermi ed essere sempre così generoso nei miei confronti. ❤️ I really aporeciate 🙏🙏
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Ammirare e apprezzare è generosità? Sei davvero brava: dimostri di studiare a fondo l’argomento che tratti!! Grazie della tua risposta.🌹🌹🌹
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Ciao Roberta, attendevo con ansia la tua recensione. Come al solito molto profonda. Posso chiederti quanto tempo impieghi per studiare e scriverle? Grazie. Fritz
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Ciao, Fritz☺️ Di base sono film che ho visto più volte e di cui ho letto e ascoltato negli anni. Poi, per sistemare idee e suggestioni ci metto una settimana circa, usando tutto il tempo libero che ho. 😘
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