di Laura Pozzi

Prima de La vita di Adele, ci sono le ragazze stropicciate de La vita sognata degli angeli, folgorante esordio alla regia di Érick Zonca, che nel 1998 ammalia e seduce la Croisette regalando alle due splendide protagoniste Élodie Bouchez e Natacha Régnier un meritatissimo premio ex equo per la miglior interpretazione femminile. Le randagie descritte ed indagate dal regista francese incantano e conquistano grazie a quel carisma “sporco” d’Oltrealpe che trova nelle antieroine cinematografiche di Agnés Varda il suo apice espressivo. Isa (Élodie Bouchez) e Marie (Natacha Régnier) ricordano molto da vicino la misteriosa e inafferrabile Mona Bergeron di Senza tetto né legge, ma ne prendono volutamente le distanze provando per un breve lasso di tempo a costruire un legame basato sulle rispettive solitudini e sulla ruvida complicità di due ventenni ai margini. L’azione si svolge nella plumbea e anonima Lille una cittadina a nord della Francia. Isa, capelli corti, sguardo sbarazzino e sorriso disarmante è uno spirito libero in continuo movimento. La sua quotidianità fatta di lavoretti saltuari e cartoline “fai da te” illustrate da rivendere nei periodi di “magra” la spingono a girovagare senza metà alla ricerca di un improbabile posto nel mondo. Zaino in spalla, abiti sdruciti, unghie scheggiate di smalto e un’ assoluta duttilità nei confronti di un mondo distratto e inesorabile che cerca invano di tentarla. La provvisorietà della sua esistenza, l’inossidabile qui ed ora, l’ acerbo, ma già profondo vuoto esistenziale che scandiscono i suoi passi intrepidi, ma incerti la legano indissolubilmente alla spigolosa e algida Marie, ragazza dal volto angelico, ma dagli istinti masochisti.

Le due s’incontrano all’interno di uno squallido e asettico maglificio dove lavorano come operaie. Seppur diversissime, s’intendono a meraviglia, la sintonia è palpabile così come la disperata necessità di stabilire un contatto. Marie ospita Isa nella grande casa lasciatale in custodia dalla sua padrona ricoverata in ospedale in seguito ad un incidente d’auto insieme alla figlioletta Sandrine in coma apparentemente irreversibile. L’ostinata ribellione mista ad un disagio latente eppur necessario per una reciproca evoluzione/involuzione le accomuna al punto tale da vivere almeno inizialmente un rapporto esclusivo, in totale simbiosi. La sterile realtà che le circonda e in qualche modo le respinge non può nulla contro l’irrefrenabile voglia di gridare in faccia al mondo la loro estraneità e il loro disgusto. Ma laddove Isa è accogliente e propositiva, Marie è furente e autodistruttiva. Isa abbraccia la vita, si appassiona al diario di Sandrine, va a trovare la giovane ormai in stato vegetativo, le parla e non perde la speranza. Marie si lascia invece travolgere dal fascino finto borghese dello sprezzante Chriss (Grégoire Colin), un rampollo benestante che gode nel domare la rabbia bruciante di quella ragazza fragile e confusa, compiacendosi di illuderla e lasciarla perire dietro il silenzio assordante di un telefono muto.

Nel raccontare la cruda parabola di due giovani “contro”, Zonca imprime a quella vita “sognata” un realismo rigoroso, a tratti insostenibile. La trama è poco più che un pretesto e potremmo superficialmente riassumerla come la storia di un’amicizia mancata. Quel che sorprende è la straordinaria capacità del regista di esplorare con aspro candore le “ammaccature” interiori delle sue angeliche creature. La realtà che ci viene sbattuta in faccia e che circonda senza troppo ardore le due fuggiasche è oggettivamente deprimente. La totale assenza di empatia che caratterizza un mondo del lavoro votato alla completa spersonalizzazione degli individui, il maschilismo ed egoismo nudo e imperante di una classe borghese bieca e padrona dipingono un universo che non ammette repliche. Se questa divisione scolastica tra buoni e cattivi, può in qualche modo risultare un limite, ciò che colpisce e rende questo film anche a distanza di anni estremamente attuale e avvincente è la rara e sensibilità con la quale Zonca approccia l’universo femminile, regalandoci due potentissimi ritratti di giovani donne. La sceneggiatura cucita addosso alle due incantevoli interpreti si nutre dei loro volti, dei loro gesti dei loro “inciampi”. Esemplare in questo senso la scena in cui Isa e Marie devono imitare due celebrità per ottenere un posto di lavoro. Isa sceglie di imitare la vulcanica Madonna, lanciandosi in dirompenti siparietti canori, mentre Marie resta in un angolo, con le labbra serrate, la postura rigida e chiusa cimentandosi in una breve e sbrigativa rivisitazione di Lauren Bacall. La storia potrebbe tranquillamente procedere senza dialoghi, mantenendo intatta una forza evocativa estranea a qualsiasi forma di patetismo o facile rassicurazione. Non c’è particolare tenerezza tra le due giovani, ma solo un’accorata e cruda disperazione che ce le rende familiari e incredibilmente umane. Tuttavia quel senso di vuoto e spaesamento provato nei minuti finali dove quella vita sognata mostra la sua feroce inconsistenza, continua a perseverare, riponendo una flebile speranza nel “miracoloso” e incessante errare di Isabelle.

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