di Andrea Lilli –
Anno 1982. Inizia la produzione del Commodore 64, il computer domestico che ancora oggi risulta il più venduto nella storia dell’informatica. Viene inventato il Compact Disc (CD), che nel giro di pochi anni sostituirà i dischi in vinile e le audiocassette. A New York 750.000 dimostranti contro le armi nucleari invadono Central Park, in una delle più grandi manifestazioni della storia americana. Al cinema, i cinque maggiori incassi mondiali sono targati USA: E.T. l’extraterrestre, Conan il barbaro, Blade Runner, Rocky III e Rambo. Senza clamore escono due film a basso costo, uno negli Stati Uniti e uno in Italia. Trattano lo stesso tema: il rapporto tra Natura e Tecnologia, tra Uomo e Resto del Mondo. Koyaanisqatsi: Life out of Balance di Godfrey Reggio e Il pianeta azzurro di Franco Piavoli (cliccando sui titoli li potrete vedere in streaming gratuito). I registi sono entrambi esordienti.


Vengono ignorati da tutti, ma col tempo conquisteranno platee e riconoscimenti ovunque. Due film senza trama e senza copione. Videopoemi di immagini pescate dalla realtà e accompagnate da suoni, che in modo differente trasmettono la stessa Weltanschauung sull’Uomo tecnologizzato destinato a piegare e offendere l’ambiente in cui vive, urbano o rurale che sia, avvilendo le altre forme di vita e in definitiva anche sé stesso. Reggio e Piavoli condividono questa visione del mondo, muta quanto eloquente, che mostra e denuncia lo scollamento della specie umana dagli ecosistemi in cui questa si evolve. Senza dialoghi comprensibili né commenti, non sono tuttavia due film silenziosi. Al contrario, li attraversa per tutta la durata un suggestivo commento sonoro, seppure di genere diverso. La suite musicale di Philip Glass (1937) in Koyaanisqatsi. Sonorità ambientali e rumori di fondo attentamente selezionati e amplificati ne Il pianeta azzurro, che invece non ha musiche, se non al termine.
Dal 1982, questi due esempi innovativi di cinema sinfonico saranno tra i modelli da imitare. Li riproponiamo nel giorno dell’ottantunesimo compleanno di Godfrey Reggio, e a una settimana dalla chiusura “per Covid” del Cinema Azzurro Scipioni di Roma, fondato nel 1982 dal produttore del film di Franco Piavoli.
– Koyaanisqatsi: Life out of Balance, di Godfrey Reggio (1982)

Koyaanisqatsi: Life Out of Balance è il primo e più noto film di Godfrey Reggio, nato a New Orleans ottant’anni fa da un’illustre famiglia di origini italiane. Iniziò a lavorarci nel 1976, mentre era un impiegato dell’Institute for Regional Education di Albuquerque, New Mexico. Voleva realizzare un documentario didattico da distribuire solo nei musei e centri culturali. Ma in fase di post-produzione, Reggio incontrò il regista Francis Ford Coppola, che vide il film in anteprima apprezzandolo molto. Disse che era “importante per la gente vederlo”: lo sponsorizzò e contribuì a presentarlo e distribuirlo nel circuito cinematografico.
Koyaanisqatsi fa parte di una “Trilogia della vita” (Qatsi significa Vita nella lingua degli Hopi, antico popolo amerindio) che comprende Powaqqatsi: Life in Trasformation (1988) e Naqoyqatsi: Life as War (2002). I tre film si avvalgono della musica minimalista e ipnotica di Philip Glass, autore delle colonne, diciamo pure vertebrali, più che sonore. Infatti in assenza di trama e recitazione la tecnica di Reggio lega in modo strettissimo il montaggio delle immagini al flusso musicale, ricorrendo in modo originale alle riprese in slow motion e in time lapsing a seconda dei rallentamenti e delle accelerazioni ritmiche nelle composizioni di Glass. Koyaanisqatsi trova inoltre la collaborazione di Ron Fricke e di Michael Hoenig, direttori rispettivamente della fotografia e del suono, assenti negli altri due film, qualitativamente meno riusciti. Koyaanisqatsi nella lingua degli indiani Hopi significa Vita squilibrata: quella di un’umanità talmente immersa nella tecnologia da non accorgersi più del contesto naturale: nemmeno di esserne uscita, di essere diventata nociva e ostile al resto del pianeta.

Il film è composto da diversi episodi, ognuno dei quali commentato da un brano musicale particolare, o da adeguate variazioni dello stesso brano. Paesaggi incontaminati (tutti statunitensi) si alternano a riprese di strutture e attività industriali, commerciali e metropolitane, in un progressivo, sfrenato processo di estraniamento dell’uomo dalla Natura. Dalle incisioni rupestri indiane primitive trovate nell’Horseshoe Canyon, Utah, ai razzi in decollo (o in collasso) a Cape Canaveral, dalle famiglie in vacanza balneare con vista su megacentrali elettriche agli esperimenti atomici nel deserto del Nevada, dal formicaio brulicante di Grand Central Station, New York al sole che sorge ma non per gli operai di turno in fabbrica, alla luna piena nascosta da foreste di grattacieli, o da casermoni di edilizia popolare, magari da abbattere poco dopo la costruzione, come è avvenuto a Pruitt Igoe, Saint Louis, Missouri. A deserti immensi e vuoti, distese di nuvole, precipizi di cascate, tumulti d’aria e d’acqua vengono contrapposti i ranghi spaventosamente ordinati dei carrarmati pronti per uccidere e delle automobili pronte per essere vendute e infilate in autostrade brulicanti e in topografie urbane sempre più simili a circuiti stampati di schede elettroniche.
Le persone vengono indotte a vivere, lavorare, mangiare, giocare, comprare, incontrarsi in modo frenetico e uniforme. Perso il rapporto con la natura, l’uomo perde il rapporto con sé stesso e si trasforma in macchina, strumento funzionale ad un sistema malato autoinnescato da un Homo Technologicus non più Sapiens, che rischia di diventare una specie impazzita e patogena per il resto del pianeta.

Nel finale torna l’accostamento delle scene iniziali. Invece di andare in orbita e conquistare nuovi spazi, un missile esplode poco dopo il lancio, il motore del razzo viene avvolto dalle fiamme e cade a terra proiettando schegge e frammenti che ricordano la sequenza esplosiva rallentata di Zabriskie Point (Antonioni, 1970). Il film termina con riprese simili a quelle iniziali dedicate all’arte rupestre indigena, ma stavolta le figure sono vestite con abiti elaborati: più evoluti. Pare che l’idea di introdurre e terminare il film con le incisioni in arenaria di Horseshoe Canyon sia stata di Coppola.
– Il pianeta azzurro, di Franco Piavoli (1982)

Il bresciano Franco Piavoli, avvocato, poi docente di diritto in un istituto tecnico, ha sempre coltivato la passione per la fotografia, la pittura e il cinema. Dopo alcuni cortometraggi, nel 1982 realizza e presenta al Festival del Cinema di Venezia il suo primo lungometraggio Il pianeta azzurro, grazie anche al sostegno produttivo dell’amico cineasta Silvano Agosti (Brescia 1938) che, dopo i riconoscimenti assegnati a Venezia e altrove all’opera del concittadino, aprirà e gestirà personalmente un cinema a Roma, in Via degli Scipioni 82, battezzandolo Azzurro Scipioni. Da qualche giorno il cinema ha chiuso i battenti, a causa della pandemia in corso, con la speranza di riprendere altrove le proiezioni, da quasi quarant’anni dedicate esclusivamente a film d’autore.
Quello di Piavoli è un altro poema sinfonico ‘muto’ dedicato alla Natura in rapporto con l’anomalia dell’elemento umano. Ma rispetto a Koyaanisqatsi, oltre alla pronunciabilità del titolo, cambia il genere di commento sonoro: suoni e rumori d’ambiente, naturali o antropici, al posto della musica. Gli scorci paesaggistici sono più stretti, più ravvicinato l’occhio sulle forme della natura. Ed è diverso anche il tipo di civiltà umana rappresentata come deviante e pericolosa per i delicati equilibri ecologici: qui contadina, invece che urbana e industriale.
A parte la naturale successione delle stagioni e dei loro fenomeni naturali, anche qui non abbiamo una trama. Il film inizia con il graduale disgelo che accompagna l’inizio della
Primavera.

Il vento soffia su superfici ghiacciate, che prima vibrano, poi rilasciano in verticale e in orizzontale singole gocce d’acqua finalmente libere di muoversi, dapprima isolate, poi riunite in flussi sempre più torrenziali. Il suono d’acqua sgocciolante e corrente aumenta d’intensità, lo scroscio acustico e visivo rappresenta la vita che si risveglia dall’immobilità del gelo. Il movimento dell’acqua rianima ciò che bagna: come sangue viene incanalata e distribuita al corpo del mondo in rivoli, ruscelli, fiumi, cascate, laghi. Acqua che riflette in mille effetti caleidoscopici la luce dell’altro fondamento della vita, il sole, creando fotogrammi luminosi, abbaglianti come opere d’arte astratta.
Il vento continua intanto a soffiare, a smuovere. Pettina e scuote campi d’erba diventata già alta, chiome boschive, col sole disegna ombre e luci in movimento, trascina nuvole, le addensa. Arriva il rombo dei tuoni, il bagliore delle saette. Di nuovo l’acqua, stavolta di pioggia. Una sinfonia di rumori accompagna l’incontro dei quattro elementi: aria, acqua, fuoco, terra. Le nuvole si allontanano, sgravate, finisce il temporale. La terra è riattivata, nutrita, pronta per i piaceri dell’
Estate.

Splende il sole sui germogli, gli animali che sanno cantare lo fanno in assoli, in duetti, in coro. Chissà se cantano a modo loro anche i pesci, le libellule, i bruchi appesi ai fili, le mosche, i ragni d’acqua. Piavoli filma ogni forma di vita con stupore e rispetto, soffermandosi su particolari che di solito sfuggono ad occhi distratti, superficiali. Il disegno aereo in controluce dei moscerini in volo, quello dei ragni, seguiti con pazienza infinita nella loro lenta arte predatoria. Le lumache, il loro suono catturato mentre si trascinano, si cercano. Iniziano gli accoppiamenti: tra gasteropodi, tra insetti, tra anfibi, tra umani. Non sembra esserci poi tanta differenza: il sesso naturale è spontaneo, non violento, non imposto, non represso, non mitizzato, né colpevolizzato. Piavoli riprende anche questo con rispetto, e attraverso pochi dettagli ne rappresenta tutta la bellezza e la dolcezza.
Autunno.

Arrivano braccia forti, e stanche. Fanno rotolare pietre, girare volanti, azionare dighe, avanzare macchine, spostare raccolti e armenti. Arriva l’uomo che sa contare e sa sfruttare il movimento della ruota, due fondamenti di ogni tecnologia. Di ogni accumulo. Passare dal granturco per sfamarsi alla ‘grana’ per arricchirsi è questione di un attimo. Sa anche parlare, ma Piavoli confonde le parole, ridotte a un rumorìo borbottante o urlante, secondo i casi. Le uniche frasi comprensibili sono quelle dello speaker di un giornale radio, ridotto però anche questo a suono d’ambiente, rumore di fondo. In questo modo si intuisce meglio quel che il regista ha avuto intenzione di fare: mettere in discussione l’egemonia, il ruolo dominante e centrale autoassegnatosi dalla specie umana nel ‘pianeta azzurro’. Anche così, riproducendo il verso dell’animale uomo come possono percepirlo gli altri animali. E allora, tanto meglio emerge la bestialità dei suoi comportamenti: per esempio, quando due vicini litigano ferocemente per il tracciamento planimetrico delle proprietà. Arriva la donna che sa piangere. Arriva il giallo, il rosso, il marrone. Arriva l’
Inverno.

Le foglie cadono. Il casolare, prima vivo e affollato, ora è abbandonato, vuoto. Sulle mura ammuffite, scrostate, ancora si possono leggere numeri di somme e sottrazioni tracciati con una matita, in mancanza di carta. Il fuoco è spento. Ci piove dentro, in quelle stanze che hanno visto donne alla finestra, coppie abbracciarsi stanche tra lenzuola bianche, pulite. Chissà che fine hanno fatto gli uomini, magari si sono inurbati, infilati nel commercio, nei servizi, imprigionati in fabbriche come quelle di Godfrey Reggio. La natura non si cura di loro, non si cura di nessuno, guarda e passa, va avanti. La pioggia si riprende tutto, calano i corvi su terre ora spoglie, nude, su tralicci elettrici ormai inutili. Soffia sempre il vento, s’alzano nebbie, vapori, ombre. L’acqua riprende il suo ciclo. Il regista ringrazia gli attori protagonisti: “gli alberi, i fiori, gli animali della Val Bruna”.

Ho visto Koyaanisqatsi due anni fa, le colonne sonore di Philip Glass sono perfette. Si parte da un ritmo molto lento per aver poi un’accelerazione ed infine il ritorno alla quiete.
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Ricordo che venni a sapere di “Koyaanisqatsi” nel 1983 ascoltando alla radio alcuni frammenti della colonna sonora composta da Philip Glass; all’epoca ero molto interessato a quel tipo di ascolti (tutta quella “scuola americana” etichettata in quel periodo come “minimalismo”), così cercai il disco (e non mi fu facilissimo reperirlo). Dalla musica passai al film; e mi resi conto che i brani di Glass aderivano perfettamente allo spirito della pellicola: comunicavano esattamente quel senso di disorientamento “frenetico” e di sconvolgimento “meccanizzato”. L’iterazione dei “pattern” sonori, tipico di autori come Glass, rispecchiava la “follia lucida” della tecnica che ossessivamente invade ogni spazio e acquistava così in questo caso un senso drammatico, che trovava la sua credibile illustrazione nelle sequenze del film di Reggio.
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Proprio così: senza quella colonna sonora il film non avrebbe la stessa presa, non solleciterebbe altrettante riflessioni. Certo, il refrain è un poco lugubre e minaccioso, ma anche questo giocò a favore della diffusione del film. Molti vanno al cinema per aver paura, e in questo caso la preoccupazione è fondata. L’album con il soundtrack integrale uscì molto più tardi, mi pare nel ’98.
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