di Bruno Ciccaglione

Dopo il grande successo avuto con I protagonisti, Robert Altman può permettersi di tornare all’ambizioso progetto cui aveva iniziato a dedicarsi qualche anno prima: quello di realizzare un film dai racconti di Raymond Carver, il grande scrittore che aveva rivitalizzato la forma del racconto breve, dedicandosi a racconti di vita quotidiana ambientati in genere nell’America provinciale, con uno stile estremamente tagliente. Altman reinterpreta nove racconti ed una poesia di Carver come un’unica grande storia, costruendo così con il suo film il grande romanzo americano che lo scrittore non era mai riuscito a completare e girando uno dei film più belli della sua carriera, Leone d’oro a Venezia come miglior film.

L’idea di un film con una schiera nutritissima di personaggi non era una novità per Altmann (si pensi ai 24 personaggi di Nashville, o ai 48 personaggi di Un matrimonio). In America oggi (Short cuts) i personaggi sono ventidue ed il cast è ancora una volta stellare: Andie MacDowell, Jack Lemmon, Julianne Moore, Matthew Modine, Tim Robbins. Frances McDormand, Tom Waits, solo per citare i più noti. Come anticipato da Altman alla vedova di Carver, Tess Gallagher, con cui aveva negoziato per i diritti di utilizzo dell’opera letteraria del marito, le storie sono per lo più trasportate dalla provincia ai sobborghi della megalopoli Los Angeles e i personaggi e le loro storie si intrecciano in modi più o meno intensi, con un approccio che non aspira alla fedeltà assoluta rispetto ai racconti, ma che ne esalta comunque lo spirito.

Le vicende sono tragicomiche, ma anche quando sono oggettivamente strazianti Altman calibra con attenzione l’atmosfera e non calca mai la mano sul dolore, non lo spettacolarizza. Se David Lynch in Twin Peaks (1991) ama indugiare sul pianto disperatamente sovraccarico della madre di Laura Palmer quando apprende della sua morte, Altman non permette mai al dolore di esplodere. Per lui America oggi è “come il blues: sono tutte storie deprimenti. Ma basta osservarne i frammenti – gli Short Cuts del titolo originale – sollevare il tetto per vedere queste persone, e catturare una parte del loro comportamento, per cogliere l’essenza di un’intera storia”. Il blues è la musica degli sfruttati e di chi prova dolore, ma “il blues non infligge dolore” a chi lo ascolta.

Non hanno tutti i torti i critici e i giornalisti che parlano di un film impietoso e apocalittico: il film si apre con la disinfestazione ad opera di squadroni di elicotteri che spruzzano insetticidi su tutta la città – invasa da un’epidemia che colpisce gli alberi di frutta – e si chiude con un terremoto. Muore un bambino, i personaggi si fanno del male l’un l’altro, sono egoisti e insensibili, ritrovano una umanità insperata proprio dopo aver dato dolore e tormento a qualcun altro o esplodono in raptus imprevisti. Eppure niente di più normale per Altman, che insiste: “It‘s a comedy!”, è una commedia.

Come scrive magistralmente Flavio De Bernardis nel suo “Castoro” dedicato ad Altman, il regista riesce sempre a evitare che il suo sguardo cinematografico induca nel pubblico una “cannibalica voracità”. Altman evita “le forme retoriche canoniche del narrare: il climax, l’iperbole, la catarsi. Le storie narrate sono deprimenti, ma la depressione non è mai enfatizzata, non è mail al culmine (…). Nel cinema di Altman tutto è concentrato sull’azione del personaggio”. Proprio come nel Blues, i personaggi di America oggi – Short Cuts non scaricano sullo spettatore il loro dolore, come avverrebbe in un programma televisivo. Molti momenti delle storie raccontate si prestavano ad una trattazione sovraccarica (si pensi al momento topico della morte del piccolo Casey) e invece qui tutto viene subito riassorbito, asciugato, raffreddato.

Come sempre avviene in ogni fase della lavorazione dei film di Altman, tutti vengono coinvolti e invitati a dare suggerimenti e contributi di ogni tipo e danno il massimo. La moglie di Carver Tess Gallagher parteciperà alla elaborazione delle modifiche che man mano venivano proposte ai racconti letterari; sarà Tim Robbins a suggerire l’idea che un personaggio – peraltro non legato al suo – potesse essere una clown per feste private ed eventi vari (una trovata che permette il raccordo e l’incrocio di alcune delle storie altrimenti separate); agli attori è lasciato ampio margine di espressione e la sensazione di una grande libertà creativa.

Altman dirige questi attori straordinari con apparente leggerezza, capace com’è di creare un clima ideale per tutti, anche quando il compito che affida loro non è facile. Emblematico quel che avviene con Julianne Moore, cui Altman chiede di girare una scena di nudo integrale, per questo divenuta celeberrima. Racconta l’attrice: “Quando Robert mi ha chiamata per discutere del ruolo, mi ha detto subito che c’era una scena che voleva io facessi, in cui avrei dovuto togliermi la gonna e sarei stata nuda dalla vita in giù. Voleva sapere se ero pronta a farla, come mi faceva sentire l’idea di girarla ecc. Io avevo appena detto di no ad un altro film, proprio perché mi avevano chiesto una scena di nudo che non mi era sembrato fosse davvero necessaria per il film. Ma Bob aveva in mente qualcosa di molto speciale. Mi descrisse un’immagine che intendeva realizzare. E la cosa interessante per me è che non si trattava di una immagine sessuale. E ho pensato: accidenti, non si vede spesso una cosa così! La nudità nei film è sempre mostrata per il suo significato sessuale”. Anche qui dunque, Moore coglie un tratto forte del modo in cui lavora Altman. Nonostante ci troviamo davanti al pube di Julianne Moore per tutta la scena, ogni erotismo è completamente annullato, con lei che asciuga la gonna bagnata col fon, mentre litiga col marito: un gesto di normale intimità in un rapporto in crisi che in quel momento mostra il suo lato più squallido.

Non a caso tutti gli attori, indipendentemente dall’età e dall’esperienza, hanno speso parole entusiaste sull’esperienza di lavoro con Altman, da Jack Lemmon (protagonista di un monologo così straordinario da convincere Altman a mantenerlo quasi integrale nonostante la lunghezza) ai giovani dell’epoca, professionisti o meno che siano (ben quattro sono i musicisti prestati al cinema: Tom Waits – l’autista alcolizzato – Lyle Lovett – il pasticcere che fa telefonate da stalker – Huey Lewis – uno degli amici che vanno a pesca insieme – e Annie Ross – la cantante di blues)

Come spiega in una intervista, per Altman “Le storie di Carver non sono storie nel senso convenzionale. Si tratta solo di eventi che succedono alle persone. La storia in realtà è costruita da quel che non si sa, piuttosto che da quel che sappiamo. Se fossimo in grado di spiegare ciascuno dei 22 personaggi, probabilmente non sarebbe stato così interessante raccontare le loro storie. È proprio il fatto che ciò che accade loro semplicemente accade, e che si tratta di eventi inesplicabili, che rende il raccontare più vicino a come è fatta la vita reale”.

Se Carver è stato più o meno a ragione definito il maestro dello stile minimalista (anche se pare che sentisse un po’ troppo limitante l’etichetta), pur senza dare una eccessiva enfasi alla parola, possiamo cogliere il perché Altman sentisse comunque una sintonia forte con lo scrittore e perché abbia così fortemente voluto realizzare questo film. Il suo cinema, e in particolare questo film, che è uno dei più belli della sua carriera, disegnano un affresco asciutto e antiretorico, con un’apparente frammentarietà del racconto che sarà capace di influenzare intere carriere di giovani colleghi (si pensi a Paul Thomas Anderson).
Anche il terremoto che chiude il film non ha nulla di catartico o purificatorio. Così come l’insetticida spruzzato dagli elicotteri all’inizio del film, non lascia traccia nelle vite dei personaggi che abbiamo osservato e alla fine li ritroviamo più o meno precisamente come li avevamo scoperti all’inizio. Come le 12 battute del giro di blues, che possono ripetersi in infinite varianti, ma sostanzialmente rimangono sempre uguali.

Nota bibliografica:
- Robert Altman, Flavio De Bernardis, Il Castoro (1995)
- Bob Altman’s big Short Cuts gamble, Mike Kaplan, The Guardian
- LUCK, TRUST AND KETCHUP – Robert Altman SHORT CUTS Documentary