di Laura Pozzi

Il Ladro, ovvero The Wrong man, l’uomo sbagliato rappresenta probabilmente il film più atipico e outsider nella filmografia di Alfred Hitchcock. Snobbato dalla critica e guardato con una punta di sospetto dallo stesso regista, la pellicola ispirata per la prima ed unica volta ad una storia vera, rispecchia fedelmente la poetica e i tormenti del suo autore, pur distaccandosene a favore di un’autenticità poco frequentata dal maestro del brivido. La vicenda dolorosa e paradossale vede protagonista un uomo qualunque, Christopher “Manny” Balestrero, musicista di contrabbasso che sbarca il lunario esibendosi ogni sera allo Stork Club. Disciplinato, scrupoloso, puntuale e animato da in incrollabile fede cattolica , la sua vita e quella dei suoi famigliari, in particolare di sua moglie Rose (un’accorata e strepitosa Vera Miles) vengono improvvisamente stravolte quando giunto negli uffici di una compagnia d’assicurazione per chiedere un prestito viene additato e trasformato nel colpevole sbagliato. Dietro la finta cortesia di tre impiegate si nasconde una trappola mortale che lo porterà prima all’arresto per rapina a mano armata, quindi ad un processo farsa basato su improbabili indizi accusatori e infine all’interno di una casa di cura dove Rose risiederà per circa due anni a causa di un esaurimento nervoso. Un clamoroso fatto di cronaca letto sulle pagine del Life Magazine basato su un deplorevole scambio di persona stuzzica parecchio la curiosità e fantasia del maestro del brivido, che ritrova in questa via crucis esistenziale un tema a lui particolarmente caro: un uomo accusato ingiustamente di un delitto commesso da un altro.

Trattandosi di una storia vera Hitch, si muove con particolare cautela, accantonando la sua proverbiale ironia. Il terreno è irto e accidentato, ma soprattutto sconosciuto per chi è da sempre fautore di un cinema puro, basato sull’azione, sulla suspense e sulla complicità del pubblico. La cautela e fedeltà ai fatti sono quindi passaggi obbligati, ma sono anche “accorgimenti” che lo renderanno scettico sulla reale riuscita del film. Come confesserà a François Truffaut nel celebre Il cinema secondo Hitchcock: “ La mia volontà assoluta di seguire fedelmente la storia originale è stata la causa di alcuni gravi errori nella costruzione. Il primo errore sta nella lunga interruzione della storia dell’uomo, per mostrare la moglie che incomincia a diventare pazza; così il momento in cui si arriva al processo risulta antidrammatico. Poi il processo termina in modo molto brusco, così come è accaduto nella vita. Sono stato troppo animato dal desiderio di rimanere vicino alla verità e ho avuto troppa fretta di concedermi la licenza drammatica necessaria”. Il film si apre sull’inconfondibile silhouette del regista che avanza in lontananza su un ipotetico proscenio fasciato da luci e ombre: “E’ Alfred Hitchcock che vi parla. In passato vi ho presentato diversi film di suspense. Ma questa volta vorrei farvene vedere uno diverso. La differenza sta nel fatto che si tratta di una storia vera…ogni singola parola lo è. E allo stesso tempo contiene elementi più strani di qualsiasi invenzione che abbia inserito in molti dei miei thriller passati”. Un breve prologo recitato in prima persona dove lo spettatore viene informato che i fatti narrati provengono da una storia realmente accaduta e meritano quindi il più totale rispetto. Rispetto che Hitch “marca” stretto con molta determinazione tenendosi fuori e rinunciando ad uno dei suoi irresistibili marchi di fabbrica: l’’immancabile cameo nei luoghi più impensati. “Le mie apparizioni all’inizio erano strettamente utilitaristiche. Più tardi sono diventate una superstizione e poi una gag”.

Questa scelta, oculata e inevitabile, rivela il pudore con il quale il regista approccia alla storia, limitando al massimo qualsiasi “intrusione” o elemento di finzione che possa in qualche modo inquinare o sdrammatizzare i fatti. Per Hitch è fondamentale il rapporto con il pubblico, la partecipazione emotiva con cui lo spettatore aderisce alla vicenda narrata. Per questo si affida al magistrale e disarmante sguardo di Henry Fonda, al suo talento smisurato eppure trattenuto, alla sua capacità di penetrare con limpidezza cristallina nelle opacità e debolezze di una società fragile, diffidente, accusatrice, in mano ad istituzioni dai modi e convenevoli umilianti e obsoleti. L’odissea di Balestrero inizia il 14 gennaio del 1953 alle prime luci dell’alba di un giorno (apparentemente) qualunque: la serata al night, il rientro a casa, il saluto all’amorevole Rose e la preoccupazione per quel mal di denti da curare con i soldi della polizza assicurativa. Hitch con la complicità delle lancinanti note di Bernard Herrmann tallona con fiuto da detective il destino kafkiano di quell’uomo ordinario annusandone la routine, sfiorandone la solitudine fino a condurlo sull’altare di un gioco al massacro dove qualsiasi spiraglio di finzione viene annullato da una realtà inoppugnabile. Un reale cupo, squallido, soffocante reso invincibile dai mille tentacoli delle sue contraddizioni.

Lo spettatore si trova costretto a vivere gli incubi e a confrontarsi con i fantasmi non solo dei protagonisti, ma di una realtà che in qualunque momento potrebbe mutare volto e cambiare le carte in tavola. La scelta di narrare in soggettiva il disagio che attanaglia Balestrero risulta vincente, come mostrano alcune sequenze divenute nel tempo vere zampate d’autore. La tetra e sinistra atmosfera squarciata da silenzi assordanti che avvolge il protagonista, lo sguardo attonito e smarrito di un uomo impotente di fronte alla legge, la vertigine esistenziale resa dirompente da una macchina da presa che incombe e inizia a ruotare vorticosamente sull’innocenza e sul capo di un indifeso sbattuto all’interno di una cella dove può solamente scorgere l’ombra di quelle sbarre che ne imprigionano corpo e anima. E quel colpo di spazzola di Rose, la crepa sullo specchio, la mente in frantumi. L’estrema precisione con cui Hitch registra gli stati d’animo del protagonista riporta ad una dimensione quasi documentaristica insolita per il suo cinema tanto che all’epoca si pensò ad un’improvvisa virata verso il neorealismo o il cinéma vérité. Hitch ancora una volta e come suo solito spiazza tutti: nel momento più importante della storia, quando il vero colpevole emerge dalle tenebre, il maestro del brivido ne combina un’altra delle sue, deliziandoci con una sovrimpressione da urlo. Ormai in preda alla più cupa disperazione Balestrero si affida alla fede. Dinanzi ad un’immagine sacra inizia a pregare, mentre il suo volto in primo piano viene incalzato da una figura in lontananza. E’ un uomo con il cappello, cinto da un impermeabile chiaro. A mano a mano che avanza il suo viso aderisce e si confonde con quello di Henry Fonda. I due volti ora sono perfettamente sovrapposti e complementari. L’uomo sbagliato ha finalmente trovato giustizia grazie all’ennesimo colpo di genio di sir Alfred.

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