Castaway on the Moon, di Lee Hae-jun (KOR 2009)

di Andrea Lilli –

La prima (e unica) regola d’oro del bravo suicida è quella di non sbagliare al primo tentativo. Per aiutare i principianti a scegliere un metodo infallibile, sono stati pubblicati manuali pratici che illustrano in modo chiaro molte soluzioni, ce ne sono per tutti i gusti. Se il vostro penultimo desiderio fosse quello di sorridere, suggeriamo per esempio i libri dei coniglietti suicidi di Andy Riley, specialista noto agli appassionati del genere, ma evidentemente non a Seung-geun Kim, imprudente giovanotto coreano che buttandosi da un ponte non riesce a farla finita, bensì approda svenuto su una piccola isola disabitata in mezzo al fiume di Seul, e diventa il protagonista di questa storia deliziosa, Castaway on the Moon (Naufragio sulla luna).

Stupido. Nemmeno capace di ammazzarti“, si rimprovera, dopo aver riaperto gli occhi. Completo grigio e cravatta rosa sulla camicia bianca, è infarinato di sabbia come un pesce da friggere e il cellulare è fuori uso. L’ultima telefonata, della finanziaria ‘Happy’n Cash-Prestiti Senza Interessi’, lo aveva informato di una situazione debitoria diventata enorme a causa di interessi su rate non pagate. Già umiliato dall’addio definitivo della sua ex, senza più soldi né affetti, il giovanotto pensava di sollevarsi così dal mondo crudele, con un semplice tuffo. E invece le acque che avrebbero dovuto inghiottirlo, lui che non sa nuotare, lo restituiscono a quel mondo infame come un vuoto a perdere, e persa una scarpa, ancora più prigioniero e solo. La situazione è tragica, ma non drammatica: il regista disegna un personaggio goffo, un po’ fantozziano, insomma simpatico; non si può fare a meno di tifare per lui.

La solitudine non è una condizione naturale, nessun uomo è un’isola, ma il povero Seung-geun in quell’isola circondata dalla metropoli è l’uomo più solo del mondo. Si guarda intorno: nessuna via di uscita. I piloni del ponte che poggiano sull’isolotto sono invalicabili come la corrente del fiume. Oltre quell’Oceano ci sono i palazzi della capitale coreana, grattacieli, code di automobili, suoni, rumori, luci, piaceri, doveri, vita. Non per lui. Passa un battello turistico: Seung-geun si sbraccia, “Aiuto, venite a prendermi“. Inutile: un turista lo fotografa, ride e gli fa ciao-ciao con la mano, mentre la guida decanta il fantastico sviluppo urbanistico di Seul negli ultimi trent’anni. Il naufrago si rassegna ad affrontare a mani nude la lotta per la sopravvivenza: deve mangiare, bere, coprirsi e ripararsi durante la notte. Scrive un grande HELP sulla sabbia, ma presto capisce che può contare solo su se stesso e sulle poche risorse locali. I primi 45 minuti del film lo vediamo ingegnarsi, comico spaventato guerriero in mezzo alla città eppure invisibile, rifiuto abbandonato tra i rifiuti. Impara l’arte del riciclo, e si riscopre come novello Robinson Crusoe.

Altro che Isola dei Famosi: quella del signor Nessuno-Kim è avara di essenze commestibili e potabili ma ricca di scarti, che arrivano dalla Civiltà spinti dalle onde, dal vento, buttati dai ponti. Il barattolo diventa pentolino, la vanga una padella, i giornali vecchi aiutano a fare il fuoco, col sellino di una bici si può zappare. Dopo la dimensione paleolitica, il naufrago riscopre l’agricoltura del neolitico. Passano i mesi e sotto la spinta del bisogno l’ingegno è diventato sempre più aguzzo; Seung-geun ce la fa. In verità è leggermente impazzito: parla da solo, o col suo unico amico: lo spaventapasseri, ma ha definitivamente rinunciato al suicidio come soluzione e tutto sommato conduce una vita dignitosa. Orgoglioso di essere autonomo, anzi autarchico, si sente re di un suo regno, da soldatino semplice che era. Tuttavia avverte sempre la mancanza di qualcosa di altro.

Hae-jun Lee pesca chiaramente dai survival movies classici, anzitutto da Cast Away (Zemeckis 2000), però lo fa con uno stile suo personale stralunato, ironico e leggero. Il pacchetto vuoto di una dose di spaghetti ai fagioli neri riempie Seung-geun di nostalgia per gli antichi sapori del junk food: e poter mangiare quel piatto diventa un’ambizione, un obiettivo alto, un ideale da inseguire e raggiungere. La Speranza. Riesce a realizzarla, la spaghettata, fabbricandosela tutta da solo. Trova semi di mais nel guano di uccelli fluviali, lo coltiva, lo macina, impasta, stende, taglia, secca, cuoce. Mangiare quel cibo nuovo e diverso dal solito, così conquistato, lo commuove.

Tutto questo non passa inosservato. Entra in campo la protagonista della storia: una ragazza hikikomori, che abita in uno dei palazzoni di fronte al fiume e segue con binocolo e macchina fotografica ogni passo di quello stranissimo alieno atterrato sull’isolotto. Autoreclusa da tre anni nella sua camera, circondata da immondizia (anche lei, come lui) impegnata in chat fasulle, afflitta da un complesso di inferiorità dovuto a un difetto epidermico sulla fronte, con una madre rassegnata a non poterla vedere mai, a non sentirne nemmeno la voce, Jung-yeon seguiva e fotografava solo la luna prima della scoperta del naufrago. La solitudine di lei è parallela a quella di lui, seppure completamente diversa. Tanto è eccessivo e grottesco lui, quanto timida e contenuta lei. Qualcosa scatta nella ragazza, attratta dai gesti strampalati dell’alieno barbone, affascinata dai suoi espedienti, dalle eroiche avventure per procurarsi il nutrimento quotidiano.

Sente il bisogno di comunicare con lui, e riesce a farlo nel modo più romanzesco, con messaggi infilati in bottiglie che lancia nel fiume, dopo ‘fughe’ coraggiose dal condominio, a cui lui risponde con parole scritte sulla terra. L’esatto opposto spaziotemporale della mesisaggistica istantanea, facile e immediata. Carta e sabbia alterni trascinano un ‘tempo reale’ interpretato alla maniera di secoli fa. Frasi semplicissime, scarne, ritrose ricevute molti giorni dopo la scrittura. La fragile dimensione degli hikikomori è qui trattata con estrema delicatezza: Lee segue con vera empatia i passi faticosi di Jung-yeon verso l’esterno, verso gli altri. E il cibo, altro tema cruciale per gli autoreclusi come per ogni altro genere di emarginati, diventa mezzo di comunicazione per arrivare al cuore di Seung-geun. Non sarà semplice creare un ponte tra i due alieni: prima il maltempo li ostacolerà, poi gli umani, rischiando di vanificare ogni sforzo. Ma questo racconto coreano (e universale) ben scritto, ben girato, divertente, non può deludere le nostre attese per l’incontro di due scarti sociali, due persone che non fanno male a nessuno, mentre cercano di tornare a volersi bene uscendo dai rispettivi contenitori/isolamenti.


  • Premio per il Miglior film al Far East Film Festival di Udine 2010

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