La Luna, di Bernardo Bertolucci (1979)

di Laura Pozzi

Signora luna che mi accompagni

Per tutto il mondo

Puoi tu spiegarmi

Dov’è la strada che porta a me.”

Signora Luna – Vinicio Capossela

La Luna, ottavo lungometraggio diretto da Bernardo Bertolucci nel 1978 arriva dopo la dispendiosa, estenuante e meravigliosa avventura di Novecento. Un tour de force in due atti, girato in 45 settimane, della durata complessiva di oltre cinque ore. Dopo un’esperienza così totalizzante e narcisisticamente appagante, Bertolucci seguendo un istinto primordiale, ha bisogno di cimentarsi in qualcosa di diverso, più intimo e scarno completamente avulso dalla sua opera precedente.  Nel tempo intercorso fra le due pellicole l’Italia viene letteralmente sconvolta e “depistata” da uno dei delitti o più precisamente massacri tra i più oscuri e inaccettabili mai avvenuti nel nostro Paese: la morte di Pier Paolo Pasolini. E’ il 2 novembre 1975, una data sinistramente profetica, è domenica e Bertolucci apprende la notizia da suo fratello Giuseppe. Lo sgomento, il dolore e la rabbia sono tali da eclissarlo dal cinema per tre lunghissimi anni. Un’eclissi “lunare” necessaria a lenire una ferita sanguinante, impossibile da cicatrizzare che lascia tracce indelebili e facilmente tangibili su una storia dove per la prima volta il regista parmense mette in secondo piano la figura paterna, per dedicarsi in modo esclusivo e carnale a quella materna. L’idea come più volte dichiarato, nasce da un ricordo lontano, da una suggestione infantile dove il piccolo Bernardo adagiato su un cestello di vimini attaccato al manubrio della bicicletta della madre osserva il suo volto giovane, mentre di fianco appare la luna. Nella mente del bambino le due visioni si confondono, si corteggiano fino a sovrapporsi in una dissolvenza incrociata che nella mente cinéphile del futuro regista è già cinema, è già arte, è già sogno splendidamente fotografato da Vittorio Storaro e ben evidenziato nella magnifica sequenza iniziale, dove è racchiuso il senso del film.

Una madre e un bambino giocano su una terrazza affacciata sul mare. Un gioco innocente, fatto di sguardi, carezze e addolcito da un barattolo di miele che la donna introduce delicatamente con un dito nella bocca del figlio. Ma il piccolo non sembra gradire, tossisce ripetutamente, sopraffatto da tanta dolcezza e affetto materno. In lontananza scorgiamo un profilo irregolare, dormiente e roccioso: siamo a Sabaudia in una grande villa dove una nonna dai lineamenti regali di una grande Alida Valli suona il piano. Il pomeriggio è terzo, assolato, in attesa di un tramonto incantatore che solo la magia del luogo sa regalare. L’armonia familiare viene improvvisamente turbata dal rumore assordante di un elicottero e dall’arrivo di un’ ombra che si muove a piedi nudi in direzione di quella madre disinvolta e leggiadra lanciata in un anarchico twist. L’ombra ostile dal volto indefinito è quella di un uomo intento a squartare pesci. Di colpo si alza e raggiunge la donna, assecondandola in una danza erotica e sfrenata, ma minacciata dalla presenza di un coltello in possesso dello sconosciuto. Il bimbo osserva il tutto con un misto di terrore e curiosità, imprimendo nella sua mente la scena primaria, quella in cui secondo Freud  la visione o la fantasticheria di due genitori colti e spiati durante un amplesso amoroso, viene vissuta come un atto di sopraffazione da parte del padre nei confronti della madre e successivamente rielaborata durante l’adolescenza con sogni e fantasie. Il rimando ad Edipo è fin troppo evidente, così come il non troppo velato omaggio (non sarà fortunatamente l’unico) al bucolico incipit dell’Edipo pasoliniano. La scena prosegue su una stradina deserta, dove la mamma con il bambino sono in bicicletta. E’ sera il monte Circeo monopolizza ancora l’attenzione e ipnotizza lo sguardo. Il bambino osserva estasiato il volto della madre e quello della luna apparso nel cielo stellato. Partono i titoli di testa, il film può cominciare, lasciando sedimentare nella mente dello spettatore un prologo avvolgente come un incantesimo.

Quindici anni dopo ritroviamo la madre Caterina Silveri (una vibrante Jill Clayburgh, scelta dopo l’inaspettato forfait di Liv Ullmann) celebre soprano e il figlio Joe (Matthew Barry) a New York all’interno di un lussuoso appartamento, in compagnia del padre Douglas. La coppia in procinto di partire per l’Italia, impegnata in una lunga tournée deve rivedere i suoi piani quando l’uomo muore improvvisamente colto da malore. Caterina decide di partire lo stesso coinvolgendo in quell’iniziatico viaggio in Italia il figlio. La vita nella città eterna seppur ricca e variegata evidenzia con sottile ferocia la disperata solitudine del ragazzo che trova presto conforto nell’eroina e nella complicità di Arianna. Scoperta la tossicodipendenza, Caterina presa dal rimorso e dai sensi di colpa decide di interrompere il tour e smettere di cantare per dedicarsi completamente al recupero di quel giovane disinteressato al mondo. Per venire incontro alle sue esigenze, la donna decide di fornirgli lei stessa l’eroina, per poi propendere verso un rapporto morboso dominato da pulsioni incestuose. Fra continui scontri, riappacificazioni e deliri, Caterina decide di tornare a Parma dal suo vecchio maestro. Una volta raggiunta da Joe, gli rivela l’identità del suo vero padre: non si tratta di Douglas, ma di Giuseppe (un Tomas Milian onorato dal ruolo), un maestro di scuola elementare. Il ragazzo decide di andare fino in fondo, rintraccia l’uomo, lo osserva, lo segue e lo raggiunge nella sua villa al mare. Siamo nuovamente a Sabaudia, accolti dal monte Circeo e da quella nonna che intreccia e lega il passato con gomitoli di lana. L’identità dell’uomo è finalmente svelata, il ricongiungimento appare difficile, ma non impossibile soprattutto se ci troviamo alle Terme di Caracalla alla prova generale di Un ballo in maschera. Lì c’è Caterina, che preferisce recitare invece di cantare, per poi ricredersi e immortalare quel momento irripetibile di unione familiare attraverso un finale catartico dove la sua voce si innalza nel cielo fino a raggiungere la luna.

Il film viene spesso, erroneamente considerato un film sull’incesto. Con una lettura così riduttiva ci sarebbe ben poco da aggiungere, ma le aspre polemiche che accompagnarono la sua uscita soprattutto nella puritana America, ne hanno spesso pregiudicato il reale valore. In realtà ne La Luna c’è tutto il cinema di Bertolucci, ma non solo, c’è l’irrefrenabile voglia di mescolare, fondere, mettere insieme cose che apparentemente e secondo le regole comuni non possono stare insieme. In molte interviste, il regista ha evidenziato come per questo film si rivelò fondamentale la lettura de Il piacere del testo di Roland Barthes. Nel saggio lo scrittore, sognava il giorno in cui sarebbe stato possibile mescolare commedia e tragedia, fondere materiali apparentemente contrastanti, contraddirsi, andare fuori binario. Il libro instaura con il lettore un rapporto di grandissima sensualità, lo adula, lo seduce, lo circuisce attraverso un piacere reciproco, nato proprio da queste rotture. Il film nasce sotto l’influenza inebriante di questo scritto che Bertolucci fa suo e lo applica attraverso una libertà stilistica travolgente, inafferabile in certi momenti squisitamente incomprensibile. Non siamo in presenza di un film psicologico, lo scavo è ridotto al minimo, ma gli spunti tematici sono innumerevoli. Oltre l’incesto e la figura centrale della madre, nelle oltre due ore di girato Bertolucci tocca gli argomenti più disparati: l’adolescenza, la droga, la perdita della figura paterna. Il tutto condito da spericolate contraddizioni formali. Potremmo definirlo un melodramma, anzi un “mielodramma”, ma i continui depistaggi, conflitti, discordanze, l’ostinata incoerenza con la quale Bertolucci porta avanti il suo discorso con assoluta libertà, ponendo dei continui anticlimax, necessari a sconvolgere stereotipi e aspettative, lo annoverano tra i suoi film più sperimentali e meno considerati di sempre. La storia appare continuamente filtrata dalla sguardo allucinato di Joe che ci restituisce la visione di una Roma dal sapore mediorientale, vezzeggiata da palme e piramidi, a due passi da un cinema dove si può scorgere ancora la luna e spiare Marilyn in Niagara. Ma sopratutto ci conduce nei luoghi dell’anima, Parma, la casa di Verdi, il casolare di Novecento. Fino ad incrociare Franco Citti, un accattone più invecchiato e sofferente, colui che quasi vent’anni prima trasformava l’intrepido Bernardo in un giovane assistente alla regia, al servizio di un poeta geniale che inventava il “suo” cinema. La vicinanza emotiva e “cinematografica” con Pasolini è ancora molto presente in questo film. Nell’affrontare la figura materna, Bertolucci non può non pensare a quella Mamma Roma, che nonostante tutto non riuscirà a salvare il suo figlio perduto. Tuttavia è proprio la presenza della luna a riservare un posto d’onore al poeta che da lì può finalmente godersi la visione della terra. Ma in questo film che appare inevitabilmente ancorato al passato, c’è anche molto futuro, come mostrano le dissacranti apparizioni di due giovanissimi Carlo Verdone e Roberto Benigni quest’ultimo impegnato in una delle famose “rotture” drammaturgiche. Senza dimenticare, il mai troppo ricordato Renato Salvatori.

Il film è dedicato a Franco Arcalli

 

   

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