di Laura Pozzi

La tragedia di un uomo ridicolo, decimo lungometraggio realizzato da Bernardo Bertolucci dopo gli scandalosi eccessi di Ultimo tango a Parigi e il lirismo melodrammatico di Novecento (senza dimenticare il sottovalutato La Luna), consacra a livello internazionale la carriera artistica di Ugo Tognazzi, attore spesso dimenticato di cui ricorre oggi il trentennale della scomparsa. Presentato in concorso al festival di Cannes nel 1981, al mattatore cremonese darà il premio come miglior attore, al quale seguirà il prestigioso nastro d’argento l’anno successivo. Il film segnerà una svolta e contemporaneamente la fine di un percorso artistico nel quale Bertolucci fatica a ritrovarsi, portandolo sei anni dopo con L’ultimo imperatore ad espugnare con ben nove Oscar la dorata roccaforte hollywoodiana al quale regalerà una seconda, ma non sempre esaltante giovinezza. Fra le opere meno acclamate e più irrequiete della sua filmografia, il film risente di una sottile e strisciante inquietudine figlia di un periodo storico confuso, ambiguo, vistosamente cruento, ma mitigato dalla straordinaria fotografia di Carlo Di Palma (dopo il rifiuto di Vittorio Storaro, già impegnato con Francis Ford Coppola) capace di rievocare e scolpire immagini con sfumature tenuemente tarkovskijane.

L’apparente tragedia che investe Primo Spaggiari (Ugo Tognazzi), cafone industrialotto proprietario di un caseificio nella Bassa parmense è l’inaspettata scomparsa del figlio Giovanni (Ricky Tognazzi), un attivista di estrema sinistra, rapito sotto i propri occhi nel giorno del suo compleanno. Uomo per sua stessa ammissione ridicolo con stile fin dall’età di cinque anni anni, Bertolucci dinanzi a quell’evento di cui non mostra dinamiche o riferisce motivazioni lo mette a confronto con una realtà ovattata, osservata attraverso le lenti di un binocolo e costantemente filtrata da uno straniante, ma pungente stoicismo emotivo. Tuttavia il rapimento di Giovanni si sposa idealmente con un’altra possibile e devastante catastrofe nella vita di un uomo vagamente pirandelliano, che dietro un approccio brechtiano cela un’identità che stenta a definirsi: il fallimento del suo impero alimentare costruito con fatica, sacrificio e quel pizzico di malsano, ma conveniente opportunismo legato alla concezione capitalista di un Paese sprofondato nelle viscere di un vorticoso e illusorio boom economico. Il riscatto richiesto da rapitori senza volto, resi tangibili dai racconti di Laura, operaia fidanzata del giovane (un’acerba, ma già incisiva Laura Morante) e Adelfo (Victor Cavallo, splendido) ambiguo prete operaio amico di Giovanni ammonta ad un miliardo, la stessa cifra che salverebbe Spaggiari dall’imminente tracollo finanziario.

A differenza di sua moglie Barbara (una lunare ed enigmatica Anouk Aimèe), raffinata madame francese appassionata d’arte, sconvolta dalla tragica notizia, l’uomo raggela le sue emozioni affidandole alle lucide e graffianti riflessioni della sua voce off (aggiunta in un secondo momento dal regista) che alleggerisce e scava un pertugio nell’impenetrabilità di un uomo sempre più avulso dalla realtà. “La differenza tra le altre imprese della zona e il mio caseificio è che loro lavorano materiali morti, io materia viva. Il ciclo della lavorazione del latte mi fa venire in mente la catena della famiglia, il liquido che diventa solido, è incredibile dopo tanti anni sono ancora affascinato dal miracolo del latte che diventa formaggio”. Il caseificio considerato come membro di famiglia, affettivamente ed emotivamente più vicino e appagante di quel figlio sconosciuto e insofferente che dimentica di menzionare il padre nelle lettere e per il quale prova un malcelato disprezzo da condividere con gli amici. “I figli che ci circondano sono dei mostri, più pallidi di come eravamo noi. Hanno occhi spenti, trattano i padri con troppo rispetto oppure con troppo disprezzo. Non sono più capaci di ridere: sghignazzano o sono cupi e soprattutto non parlano più. E noi non sappiamo capire dai loro silenzi se chiedono aiuto o se stanno per spararti addosso.” Una distanza difficile da colmare se non attraverso una convinzione macabra, ma redditizia, ovvero prendere per buona la notizia della sua morte per sfruttarla a suo favore senza minimamente testarne la veridicità. Tuttavia Giovanni come nel più inesplicabile dei misteri di colpo ricompare con il suo enigma tutto da risolvere. Ma a quel punto il compito diviene troppo arduo per un uomo impegnato a rendere credibile e in parte comprensibile una storia sregolata, frammentata, parzialmente venata di giallo, incanalata sui binari morti di un’indagine volutamente lasciata cadere nel vuoto. Spaggiari non si assume responsabilità, abbandona la nave/caseificio, getta via il berretto da capitano e fugge lontano salutando il pubblico con un dissacrante e kafkiano “Il compito di scoprire la verità sull’enigma di un figlio rapito, morto e resuscitato lo lascio a voi. Io preferisco non saperlo”.

La scarsa attrattiva del film non corrisponde ad uno scarso spessore drammaturgico, semmai ad una lacunosa empatia con la quale Bertolucci attrae e respinge lo spettatore. Una “distanza di sicurezza” dovuta ad un periodo storico caratterizzato da esasperata doppiezza “L’ambiguità oggi fa parte della nostra dieta quotidiana. Non c’è più alcuna certezza, compresa quella che riguarda gli eventi”. Non solo il regista parmense si cimenta con una storia dove il tema del terrorismo viene pudicamente sfiorato, ma non ignorato. Un non coinvolgimento necessario a non lasciarsi travolgere da un presente oscuro e oscurantista. La storia sedimenta sulle dilatazioni temporali di una vicenda irrisolta, dissimulata, resa grottesca da alcune incursioni comiche del miglior Tognazzi. L’attore d’altra parte resta fedele a se stesso, al suo spirito anarchico alla sua personalità politicamente scorretta. Un film atipico, intimista, impreziosito dalle musiche di Ennio Morricone e da un cast superbo che vede fra gli altri la presenza di un Renato Salvatori, già gravemente minato dalla malattia, qui alla sua ultima indimenticabile interpretazione.
