di Girolamo Di Noto

Con la scomparsa di Jean-Paul Belmondo la settima arte perde una delle sue icone più importanti e, dopo l’addio di Anna Karina nel dicembre 2019, il cinema francese, in particolare, si priva di un altro interprete simbolo della Nouvelle Vague. A tal proposito c’è un film della Nouvelle Vague, Pierrot le fou (Il bandito delle 11) di Godard, in cui Belmondo recita proprio con Anna Karina e, prima di farsi esplodere con la faccia dipinta di vernice blu e i candelotti rossi e gialli di dinamite legati intorno al capo, trova il tempo per scambiare due parole con il regista Samuel Fuller, che interpretando se stesso dice: “Il cinema è come un campo di battaglia: amore, odio, azione, violenza, morte. In una parola: emozione”.

Le parole di Fuller inquadrano perfettamente quella che è stata la carriera di Belmondo: attore poliedrico, al cinema non è stato solo un duro, un acrobata che corre e salta sui tetti, sui cornicioni e sulle grondaie senza aver bisogno di nessuna controfigura, ma ha anche dato vita a personaggi diversi, dall’intellettuale antifascista de La ciociara di De Sica, che viene catturato dai nazisti, al sacerdote che fa innamorare la vedova Emmanuelle Riva del film Leon Morin, prete, di Melville. Ha interpretato numerosi film ma quelli in cui forse si è trovato più a suo agio sono stati i polizieschi e uno di questi è stato certamente Il poliziotto della brigata criminale di Henri Verneuil.

Quando si parla di poliziesco francese si pensa inevitabilmente al polar, quel genere nato dalla fusione dei termini poliziesco e noir in voga in Francia negli anni Quaranta sotto l’influsso del cinema americano che ebbe come protagonisti attori indimenticabili come Jean Gabin, Jeanne Moreau, Michèle Morgan e registi di grande spessore come Sautet, Becker, Melville. Il poliziotto della brigata criminale è un’opera che prende le distanze dal polar e si avvicina più al poliziottesco italiano ed è un film d’azione che poggia molto sulle spalle di Belmondo. Si muove nei territori accidentati delle passioni, delle vendette e delle ossessioni, è ambientato in una Parigi che mostra il suo lato freddo, meno romantico, ma del noir non conserva né il fascino ipnotico delle dark lady, né l’amara solitudine dei suoi protagonisti.

Belmondo interpreta la parte del commissario Letellier, un poliziotto d’azione dai metodi spicci che è alla caccia di Minosse (Adalberto Maria Merli), uno psicopatico che uccide le donne che, secondo la sua morale, conducono una vita indegna, donne “che si avvoltolano nel fango della lussuria”. E non è l’unico criminale con cui dovrà vedersela. Il poliziotto della brigata criminale è uno dei polizieschi francesi più riusciti degli anni Settanta, un film condotto con impeccabile stile e costruito attorno alle grandi performance di un gruppo di attori in stato di grazia che sanno lasciar scorrere sui loro corpi e sui loro volti le emozioni e le scene di grande effetto e adrenalina.

Ovviamente il film è tutto per Belmondo, che sa dar vita con quella sua svagatezza guascona e la faccia da schiaffi ad un personaggio scaltro, anticonformista. È un poliziotto dal grilletto facile, vendicativo che ricorda il Callaghan di Siegel interpretato da Eastwood, dalla battuta facile, autoironico che si definisce “molti muscoli e poco cervello”. Attorno a lui si svolgono le sequenze ricche di adrenalina, quelle di “azione, violenza, morte: emozione” espresse da Fuller: guida l’auto dal lato del passeggero, penzola appeso ad un balcone, resta in bilico sul tetto di un treno in corsa, si fa catapultare da un elicottero su un grattacielo.

Inizialmente disinteressato al serial killer, perché ha ancora un conto in sospeso con un altro criminale, il commissario pian piano si appassionerà alla ricerca dello psicopatico viscido, moralista e represso sessualmente, il cui occhio di vetro lo rende ancora più inquietante. Il film è tutto per Belmondo, dicevamo, ma è strepitoso l’apporto degli altri attori a partire da Adalberto Maria Merli che interpreta il folle killer impegnato in una crociata tutta personale contro la liberazione sessuale. Abbandonati i panni del ricco e viziato rampollo con Lamborghini de La prima notte di quiete di Zurlini, Merli qui è un maniaco dalla voce camuffata, davvero inquietante nell’aspetto e nel suo progetto di voler punire quelle donne- quasi tutte vedove – colpevoli, a suo dire, di vivere con gioia la propria sessualità.

Indimenticabile è anche Lea Massari, qui in una piccola parte, ma convincente nel ruolo di una donna che vive sola, impaurita dalle minacce telefoniche che riceve con insistenza. La sequenza iniziale che vede lei protagonista è magistrale e degna di un film di Bava o del primo Argento per come riesce a mostrare la paura senza ricorrere alla violenza. Una paura intesa come brivido, tensione epidermica, battito cardiaco, tutta concentrata nel suono angosciante e agghiacciante del telefono che squilla nel cuore della notte, nella musica incalzante di Morricone, una paura che immobilizza, che rende fragili, impotenti, rassegnati.

Una torbida vicenda urbana raccontata con ritmo serrato e giusta tensione in cui le passioni vengono concepite come modalità negative di condotta, girata dal regista con piglio e attenzione e che ha nel sorriso sghembo e l’andatura scomposta di Belmondo una straordinaria interpretazione, una pregevole recitazione dal fascino magnetico cui è difficile resistere.

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