di Laura Pozzi

Tre piani di Nanni Moretti, tratto dall’omonimo romanzo di Eshkol Nevo, è sicuramente fra i titoli più attesi dell’anno. Presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes (dove ha ottenuto una standing ovation di 11 minuti), il film arriva sugli schermi italiani con un anno e mezzo di ritardo, frenato dall’esplosione incontrollata del COVID-19. L’uscita originaria, prevista per il 23 aprile 2020, è stata letteralmente polverizzata dagli effetti devastanti di una pandemia sconosciuta e imprevedibile. Non sapremo mai se questo lungo e forzato stop abbia giovato o meno al tredicesimo lungometraggio del regista di Brunico, di certo questo film algido e spettrale rispecchia come pochi la precarietà e l’ossessione di sentimenti contrastanti, così come il riaffiorare di ataviche paure fomentate da un momento storico oscuro e indecifrabile. Con questo non vogliamo dire che Tre piani sia un film riuscito, tutt’altro, ma è sicuramente una delle opere più rappresentative di un collasso emotivo che un virus subdolo e sprezzante ha reso ancor più tangibile. Un film cupo e scostante, con il quale è impossibile empatizzare o scendere a compromessi, che lascia e acuisce quel senso di smarrimento e alienazione con cui siamo obbligati a convivere. Nel voler segnare probabilmente una svolta alla sua produzione artistica, Moretti si affida per la prima volta alle storie scritte e pensate da qualcun altro, nello specifico uno scrittore nato a Gerusalemme nel 1971, che con un romanzo di rara eleganza e sensibilità conquista l’immaginario di un regista/personaggio fra i più criptici e impenetrabili del nostro cinema.

A fare da sfondo a vicende famigliari tutt’altro che idilliache sono i tre piani di un lugubre e imponente condominio reso “eterno” da una città spogliata della sua grande bellezza. L’evidente e necessaria frattura con un passato artisticamente lontano è sottolineata fin dalle prime inquadrature, dove vita e morte si intrecciano in un gioco di rimandi sottilmente perverso. Una donna viene investita da un’auto guidata da un giovane ubriaco, mentre un’altra (Alba Rohrwacher), testimone dell’accaduto, si reca in ospedale per dare alla luce una bambina. Quell’auto che irrompe violentemente sulla scena fino a schiantarsi e terminare la sua folle corsa all’interno di un appartamento dove vivono Lucio (Riccardo Scamarcio), Sara (Elena Lietti) e la piccola Francesca, marca un nuovo territorio evidenziando in modo tutt’altro che velato quella famosa rottura alla quale Moretti non può e non vuole più sottrarsi. A fare le spese di questa nuova e rinnovata consapevolezza è proprio il romanzo di Nevo, che non solo viene privato della sua terra natia (l’azione si sposta da Tel Aviv a Roma), ma deve fare i conti con l’immobilità di personaggi robotici, in continuo stallo emotivo, dei vuoti a perdere incapaci di comunicare. Per questo non stupisce più di tanto la recitazione straniante e volutamente ingessata di un cast che vede primeggiare i “soliti noti” del nostro cinema.

Il tutto a prima vista può apparire spiazzante e pericolosamente fuori controllo, ma Moretti conosce bene la materia e sa benissimo che non può fino in fondo rinunciare a se stesso. Per questo crea appositamente Vittorio, un giudice severo e rigoroso, un personaggio assente nel libro capace di ricreare una dolorosa stanza del figlio (che non a caso si chiama Andrea), dove si trova ancora a suo agio e dove può ancora una volta interrogarsi su quella morte, solo che stavolta, anche a costo di apparire crudele, ne anticipa i tempi dimenticando e considerando quel figlio “già morto” prima della tragedia. Ma il film ad un’analisi più attenta ed accurata si nutre profondamente dei tratti autoriali che da sempre caratterizzano il suo cinema. Molta critica non a torto è rimasta fortemente destabilizzata da questo nichilismo morettiano, che tira dritto per la sua strada rasentando più volte l’inverosimiglianza. L’ironia viene caparbiamente tenuta fuori campo, così come viene edulcorato qualsiasi espediente volto ad alleggerire esistenze fallimentari caratterizzate da sospetto, ossessione, senso di colpa, rigore, esclusione.
Ma è proprio nell’ inedito e a volte incomprensibile tentativo di esasperare e assecondare questa “intransigenza“ drammaturgica che il film fa cilecca. Nell’ostinata ricerca di un’essenzialità poco incline alle sue corde, Moretti lascia fuori l’aspetto più incisivo e originale del romanzo. Le azioni dei personaggi sono spesso ingiustificate, così come le violente reazioni dettate più da un’isteria collettiva che da un doloroso disagio esistenziale. I tre piani di Evo incarnano nel libro le tre istanze freudiane di Es, Io e Super-Io, e lo scrittore costruisce le tre storie tenendole ben separate. Questo gli consente, a differenza del film che intreccia continuamente i tre piani narrativi, di indagare e penetrare nelle zone d’ombra dei suoi personaggi, compiendo un vero prodigio narrativo tra cinema e psicanalisi. Senza dimenticare la costante tensione che avvolge l’interiorià di individui inconsapevolmente sedotti e rassicurati dai propri limiti. Un film che nonostante tutto appare altamente significativo di questi tempi, una strana e macabra profezia che ha permesso al Nanni nazionale di lavorare ad un nuovo progetto. Stavolta (pare) tutta farina del suo sacco: il che ci fa ben sperare.
