di Andrea Lilli –
Questo piccolo grande film inglese del 1945 è una delle più memorabili storie d’amore mai viste sul grande schermo. Fu il primo successo internazionale di David Lean, in seguito reso celebre da produzioni molto più impegnative, come Il ponte sul fiume Kwai (1957), Lawrence d’Arabia (1962) e Il dottor Živago (1966). Breve incontro è il suo quinto film, il quarto diretto in collaborazione con Noël Coward, geniale sceneggiatore, attore, compositore, produttore, ma soprattutto brillante commediografo teatrale che collaborò con molti maestri dell’epoca, da Lubitsch ad Hitchcock, da Frank Lloyd ad Allégret, e che seppe intuire il talento da cineasta nascosto nell’allora montatore David Lean.

Tanto spontaneo quanto inopportuno l’Amore non chiede permesso, e si intromette fra due viaggiatori pendolari che, abituati a frequentare la stessa stazione di provincia nello stesso orario del giovedì, nel giro di un mese finiscono per conoscersi, piacersi, innamorarsi, quasi amarsi, lasciarsi sconvolti. Un tema non originale, quello degli incantesimi fugaci tra le rotaie, ma qui talmente ben elaborato e interpretato da inchiodare alla sedia lo spettatore ancora oggi. Uno di quei vecchi, preziosi film in bianco e nero che riesce a rubarti occhi, mente e cuore; te li sequestra per tutti i suoi 86 minuti, e più volte lo guardi, più ti prende. Breve, sì, ma incredibilmente denso e leggero al tempo stesso: un elegante, magico buco nero che attrae e trattiene senza scampo. Scopri ogni volta un particolare nuovo, bello, ironico, emozionante. E doloroso. Un classico, che invecchia aumentando il suo fascino.

Lo rivedi oggi, e non sembra ancora spento il colpo di fulmine tra Laura ed Alec. Rimane vivo lo stupore di questi due quarantenni di fronte a ciò che gli sta accadendo fra un tè e l’altro al bar della stazione, è sempre intatto l’entusiasmo dei loro pochi incontri, così come il panico dinanzi alle decisioni sul futuro che devono prendere, comunque, insieme o no, a carte scoperte.
Un uomo e una donna maturi, ‘sistemati’, borghesi, sposati, affezionati ai rispettivi coniugi, due figli ciascuno. Casalinga lei, medico lui. Due come tanti, non particolarmente belli, se non per quella luce riflessa dell’innamoramento condiviso, resa più luminosa dal contrasto con la routine familiare. Bastano pochi sguardi, poche mosse e parole ma aperte, libere, ed ecco che i due ritrovano un’allegria, un’armonia, un desiderio che sembravano perduti con la giovinezza. Si cercano, corrono, barcollano, si sorreggono tra loro. Si capiscono.

L’intesa aumenta al bar, al ristorante, al cinema, durante le passeggiate nel verde. David Lean gioca con humour portandoci con loro nella sala fumosa dove si proietta Flames of Passion, filmaccio atroce da cui i malcapitati Alec e Laura scappano, prima che finisca la proiezione, sotto lo sguardo critico delle maschere. Si allontaneranno anche dal loro amore, prima che si completi. Sarà stata Laura a decidere che strada prendere al bivio, durante i (non) confronti col marito, divorata dai sensi di colpa verso i figli? O sarà stato Alec a tagliar corto, nel momento in cui comunica a Laura la notizia del suo imminente e lontano trasferimento, con l’intera famiglia? Una delle tante finezze di questo film sta nel mantenere costante la perfetta alchimia tra i due protagonisti, che vediamo comprendersi e completarsi in ogni occasione, anche quando debbano rinunciare ad una conversazione intima, o al letto, per i soliti scherzi di un destino cinico e baro. Celia Johnson (al terzo film con Lean) e Trevor Howard (al terzo titolo di una lunga filmografia) sono impeccabili: timido lui, tormentata lei, sembrano completamente immedesimati nei loro personaggi.

Ma è Celia Johnson/Laura ad emergere in primo piano: è lei che ci racconta la storia, che parla a se stessa, si tormenta, vaga da sola in preda al dubbio, più di Alec combattuta tra desiderio e responsabilità. Lei che si guarda allo specchio, che vede i propri sogni di viaggi per il mondo nel finestrino del vagone su cui fa il solito percorso. Il viso mutevole di Celia Johnson esprime in modo trasparente il mondo interiore di Laura, lo leggiamo meglio che nelle sue parole. È lei, ferma sulla banchina della solita stazione, ad essere illuminata dalla luce intermittente dei finestrini del treno di Alec, mentre quei vagoni, quei sogni le passano accanto e se ne vanno.
Il treno come metafora di una storia bella e possibile che sfila e sparisce, una pellicola formata da tanti fotogrammi/finestrini attraversati rapidamente dalla luce. Li vedi, ti illuminano, si spengono riavvolti e lontani (magistrale il lavoro di Robert Krasker sulla fotografia).


Alec e Laura decidono di lasciarsi, ma rivedendo il film resta intatto il loro rapporto incompiuto, integra la sintonia – prima felice, poi sofferta – dei loro migliori quattro giovedì nell’anno 1938. Non s’impolvera lo sguardo che si scambiano fino all’ultimo, l’oro di quei sogni in bianco e nero non perde lucentezza. Il loro desiderio fra un treno e l’altro della stazioncina di Milford resta vivo, il fantasma della loro libertà sopravvive e sorride tuttora ai vapori delle locomotive, alle pettegole invadenti, ai ferrovieri beoti, alle bariste toste, alle anime morte che rinunciano ai sogni.
Il titolo del pezzo teatrale scritto da Noël Coward, da cui il film è tratto, è di un’ambiguità sottile: Still life. Significa Natura morta, ma potrebbe tradursi anche come Vita bloccata, o sospesa, o silenziosa, oppure Ancora vita. Tra queste ed altre possibili interpretazioni, Laura ed Alec, un uomo e una donna capaci di amare ancora, ma incapaci di cancellare gli amori/affetti paralleli e precedenti, ne hanno scelta una, insieme: uniti comunque e per sempre, a modo loro.

- disponibile online la versione originale con traduzione automatica. Sconsigliate le versioni doppiate in italiano; i caratteri britannici qui sono fondamentali, il doppiaggio li mortifica. A maggior ragione evitare le versioni online con la colonna sonora differente da quella originale, che è insostituibile e strutturale al film: il meraviglioso Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov.
- Nel 1974 venne prodotto un remake per la TV con Sophia Loren e Richard Burton, diretto da Alan Bridges. L’accoglienza fu tiepida: l’inconveniente maggiore fu la scelta di due straordinari divi del cinema per la rappresentazione di due persone comuni, di una coppia del tutto ordinaria.
– 23/9/2021

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